QUANDO LA LONGOLA ERA LA PORTA DELL’INFERNO

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Per impedire a cavallette e ad altri insetti di devastare i raccolti dei campi vesuviani, la chiesa nolana le ha provate tutte. La testimonianza di un processo di maledizione e scomunica. Di Carmine Cimmino

Tra gli strumenti della “magia buona“ della Chiesa ci sono i riti che propiziano la pioggia: di recente sono stati “usati“ contro la siccità che affliggeva il Nord Italia. Non fu facile per la Chiesa nolana trovare i rimedi contro le periodiche invasioni di insetti: muroli, campe e cavallette, che richiamavano alla mente Mosè e le piaghe d’Egitto, e dopo l’eruzione del 1631, vennero associati all’immagine infernale del Vesuvio. Nel 1640 muroli -nome locale di un micidiale coleottero- e cavallette flagellano le vigne e i frutteti del Vesuviano e della Campania felice.

Mons. Lancellotti, vescovo di Nola, decide di maledirli, di scomunicarli -gli insetti- , e di obbligarli, con la maledizione e la scomunica, a ritirarsi. Ma il vescovo è costretto ad aspettare la sentenza di un vero e proprio processo, che si tiene in curia, e in cui gli imputati -gli insetti- sono difesi da un teologo. L’avvocato teologo dice che non è lecito né maledirli, né cacciarli via, perché essi, gli insetti, non solo sono creature di Dio, ma, dai tempi di Mosé, sono soprattutto lo strumento dell’ira di Dio. Ma don Domenico Ingolo, utriusque iuris doctor, dottore di diritto civile e di diritto canonico, dimostra che le cose non stanno così, che i voracissimi insetti non sono stati mandati da Dio, ma da Belzebù.

E così il vescovo Lancellotti può celebrare il rito della maledizione e della scomunica, e può ordinare agli insetti scomunicati di ritirarsi nell’Inferno attraverso le paludi della Longola, in pertinentiis terrae Striani, e attraverso lo “squallore“ dell’ Atrio del Cavallo, in pertinentiis Octajani. Nell’immaginario popolare, da sempre e dovunque, le putride paludi sono segnate da presenze diaboliche, e le lave del Vesuvio vengono direttamente dalle fornaci dell’Inferno. Gli insetti devastatori tornano nel 1668. Si tiene un nuovo processo, in cui Giulio Casaburo, procurator et defensor animalium, fa sue le tesi sviluppate dall’avvocato difensore del 1640, ma la sua arringa è fredda e di maniera. Lo spinge alla prudenza l’agitazione dei proprietari e dei contadini: sono incazzati, poiché, mentre a Nola si parla, muroli e cavallette fanno scempio delle loro viti, dei loro alberi da frutta.

Secondo i cronisti del tempo, i Vesuviani sono un popolo di briganti e di grassatori, e gli Ottajanesi e il loro Principe, Giuseppe I Medici, sono la “crema“ di queste masnade. Pare naturale a quei cronisti che i fulmini dell’ira di Dio si scarichino soprattutto sulle loro vigne. Per ottenere il perdono, gli Ottajanesi ascoltano per otto giorni i sermoni di tre “missionari” gesuiti, padre Carlo Marchese, padre Tommaso Auriemma e padre Ignazio, digiunano per tre giorni, il 6, l’8 e il 9 giugno, si confessano, si comunicano, e il 12 giugno scortano in processione San Michele, “con musiche e sparatorie artificiali con concorso grande dei forestieri, dove si è rappresentata l’opera spirituale di Santa Timpana, .. e con numero di 200 soldati.”.

Il 15 giugno 1668, venerdì, il vicario del vescovo di Nola, accompagnato da due notai e da Giovanni Lombardo, procuratore dell’ universitas Octajani, si reca allo “Torcigno“, a Terzigno, e nella Chiesa di Sant’Antonio, “sita nella masseria di Tommaso Iovino al Campitello, “scaglia l’anatema contro gli insetti devastatori, dopo aver garantito che gli Ottajanesi si sono pentiti dei loro peccati, hanno dispensato elemosine ai poveri, e, cosa che sarebbe incredibile se non venisse detta da un prete, e per di più, dal pulpito, hanno posto fine a contese e rivalità. Il 18 giugno, infine, gli Ottajanesi, purgati e bonificati, si stringono intorno al vescovo di Nola, Francesco Gonzaga, il quale “vestito pontificalmente in virtù di Breve Apostolico ha benedetto il popolo tutto e poi davanti al portone del palazzo dell’Ecc.mo Principe padrone, et torce accese et campanelli sonati, ha maledetto et interdetto li muroli et campe.“: e ha ordinato che si ritirassero nell’Inferno attraverso le due porte che già conosciamo.

Il notaio cancelliere dell’Universitas di Ottajano conclude il verbale della cerimonia esprimendo la speranza che “alla Presenza di Iddio della Beata Vergine del Carmine et intercessione del Glorioso San Michele Arcangelo nostro Protettore e padrone cesseranno detti animaletti di fare tanto danno et non comparranno più.”. E invece gli “animaletti“ tornarono, due anni dopo. Questa volta Giuseppe Medici e gli amministratori di Ottajano ordinarono che tutti i proprietari provvedessero a distruggere, con il fuoco, gli insaziabili insetti. ”E acciò non si possa allegare causa di ignoranza“ il bando con la disposizione fu “pubblicato per i luoghi soliti di Ottajano e copia di esso fu affissa nella piazza.”

Nel 1672 insieme con una nuova ondata di muroli e cavallette venne in Ottajano, “con una sua squadra“, Domenico Cardamomo, scrivano del Regio Tribunale di campagna: avevano, lui e i suoi, il compito di controllare che venissero bruciate anche “le sementa“ degli “animaletti”. La disinfestazione durò 20 giorni.

Il cancelliere, dopo aver misurato e registrato a verbale le notevoli spese di “alloggiamento“ per Cardamomo e i suoi, postillò che essi avevano portato “utile al pubblico“, ma “un gran danno“ al bilancio della città. E mise punto. Ma subito dopo chiosò: “il che è stato castigo e flagello di Dio“, lasciando a noi il piacere di indovinare se “il che“ si riferisse ai muroli, o a Cardamomo e alla sua squadra, o all’ insieme dei voraci invasori.
(Foto: Statua di S.Michele portata in processione ad Ottaviano l’8 maggio scorso)

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