La galleria di Lucio Amelio, luogo d”incontro e spazio di promozione artistica, nel 1980 ospitò artisti da tutto il mondo che videro con i propri occhi la tragedia del terremoto, realizzando opere segnate dall”espressione di quei giorni.
Sono da poco trascorse le sette e mezza di sera. La terra smuove le sue viscere incandescenti e in pochi secondi esplode la sua immane potenza, lacerando ogni cosa radicata al suolo. Un’immagine mestamente nota, anche per le recenti sciagure, che la Campania ha conosciuto il 23 novembre dell’ ’80 e che brucia ancora come ferita aperta.
Quella del terremoto irpino è stata una delle dolenti pagine della nostra storia recente, di fronte alla quale, insieme all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni, anche l’arte non è rimasta a guardare. La sensibilità e le potenzialità socio-culturali del medium artistico hanno spesso concorso ad una presa di posizione rispetto a tragedie di questo genere. Emblematico il caso di Gibellina, nella valle del Belice, completamente distrutta da un altro disastroso terremoto nel 1968 e faticosamente ricostruita, soprattutto a causa delle inefficienze che, troppo spesso in queste occasioni, emergono in tutta la loro macroscopica portata.
La drammatica vicenda offre la possibilità ad un nutrito numero di artisti ed intellettuali (tra cui Guttuso, Sciascia e Zavattini) di ripensare un luogo dilaniato dalla furia della natura attraverso svariati interventi, riconvertendolo, con la forza irresistibile dell’utopia artisitica , alla dignità che il malgoverno della ricostruzione, ancor più che la ferita inferta dalla natura, aveva sottratto alla cittadina siciliana. Nell’ ’80 avviene qualcosa di simile e ancor più rivoluzionario. È Lucio Amelio, uno dei protagonisti della “rinascita” post terremoto, attraverso il mezzo dell’arte.
Apre la sua galleria a Napoli nel 1965 col nome Modern Art Agency e una personale dell’artista tedesco Wirtz, segno di un profondo rapporto con la cultura e l’arte tedesca, che culminerà nel ‘71 con la prima mostra in Italia di Joseph Beyus, nella nuova sede della galleria che ormai porta il suo nome. Gallerista d’arte contemporanea affermato e rispettato nonché mecenate, estremamente sensibile all’evento di cronaca, convocò presso la propria galleria in Piazza dei Martiri a Napoli, gli artisti più attivi del momento del panorama internazionale e giovani emergenti; lo scopo della rèunion era dei più nobili: realizzare in loco opere intorno al tema del terremoto e dispensare il ricavato degli incassi alle popolazioni disastrate dei comuni avellinesi in Irpinia.
Terrae Motus era il titolo della geniale iniziativa. Oltre 60 artisti e più di cento opere di mostri sacri della scena mondiale come Andy Warhol e Joseph Beuys, il giovane Nino Longobardi, Twombly, Michelangelo Pistoletto, il fotografo Robert Mappletorphe, Mimmo Paladino, Mario Merz. Il miracolo dell’arte cui ci si appella per risollevare dalle ceneri un territorio al martirio. Furono giorni di fervore e clamore: orde di giovani, appassionati d’arte e non radunati nel corteo che accompagnava il gruppo da Piazza dei Martiri, al lungomare Caracciolo fino al mitico City Hall Cafè, locale alla moda dalle atmosfere internazionali di Dino Lugli, quando le mille sfumature di Napoli venivano immortalate nelle migliaia di polaroid che Andy Warhol scattava lungo il percorso.
Il guru della pop americana a pochi mesi dal dramma realizzò un opera di estremo impatto emozionale, riattualizzando la grammatica della serie Death and disaster cui aveva lavorato durante gli anni 60’, quando una tragedia aerea in cui morirono centoventinove passeggeri gli offrì lo spunto mediatico per elaborare immagini di morte, in una ripetizione seriale, febbrile, tale da provocare un’indigestione visiva nello spettatore, pur mantenendo la presunta neutralità del mezzo fotografico. Il trittico napoletano consiste in tre grandi tele, con la riproduzione serigrafica della prima pagina del Mattino del 26 novembre 1980, dove veniva enfatizzato all’infinito il titolo-urlo del giornale (Fate presto).
Il consumo dell’immagine non risparmia nulla che non sia di dominio pubblico: laddove c’è la notizia, anche la più violenta e cruda, c’è il pubblico di massa che la divora. Qualche tempo più tardi la “fascinazione” per la catastrofe, “neutralizzata” attraverso il filtro pop, verrà riproposta in occasione di una grande mostra presso la Reggia di Capodimonte, per la quale realizzerà la serie Vesuvius by Warhol, una serie di lavori grafici nelle quali l’immagine ottocentesca del vulcano in eruzione viene riproposta ossessivamente.
La scossa mortale fu d’ispirazione per Joseph Beuys che, invece s’inventò, tra le altre, la performance Terremoto in Palazzo; una certosina raccolta di oggetti e vecchi mobili, il drammatico resoconto della tragedia sismica, vennero trasportati ed esposti alla Modern Art Agency,con una cura e un attenzione quasi maniacale nella disposizione caotica volta ad assecondarne e rafforzarne il senso di estrema precarietà. La collezione, che fu successivamente legata per lascito testamentario alla Reggia di Caserta, e il vivace spirito degli artisti legati alla galleria di Lucio Amelio, rappresentano la migliore immagine di una città dove l’obsolescenza culturale viene, spesso, additata come fattore dilagante.
Ma Napoli con Terrae Motus diventava epicentro di vicende internazionali, finendo sotto i riflettori mondiali, questa volta per fregiarsi, seppure per quella breve parentesi storica, del titolo di capitale dell’arte contemporanea. “A Napoli, sopra nuove e vecchie macerie il nostro Terrae Motus ha ricostruito una nuova idea dell’arte per gli anni a venire. Un’ idea di partecipazione morale, civile e politica”. Così il gallerista napoletano, amico e promotore dei campioni che hanno segnato pagine fondamentali della storia dell’arte contemporanea, scriveva di quella eccezionale esperienza attraverso la quale, per un momento, Napoli rubava la scena a Parigi e a New York.
(Fonte foto: Rete Internet)


