LA CITTÁ DEL DANARO

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La politica ha perso il contatto con la realtà sociale concreta. Usa la quantità come metro di valutazione, per cui un problema esiste solo se un sondaggio lo rileva. Manca la lungimiranza.

Per Martin Lutero i soldi sono lo sterco del diavolo, per noi rappresentano una finestra sulla dimensione della possibilità oppure uno scopo o, ancora, la condizione per non perdersi nei meccanismi sociali a cui, volenti o nolenti, dobbiamo adeguarci; infine essi possono essere la rappresentazione più precisa e plastica delle nostre città.
La Paperopoli disneyana e la regione antica della Frigia, il cui re era Mida, sono forse i due spazi metaforici che possono dirci qualcosa della città del denaro.

La prima città, compagna delle lunghe mattinate al mare, leggendo i fumetti di Zio Paperone e del povero Paperino, ci offre l’esempio di una ricerca spasmodica del guadagno, dell’arricchimento che non genera, però, alcun cambiamento: i ricconi continuano ad essere tali e si scannano fra di loro come Paperone e Rockerduk per un cent; i poveri imbecilli, nonostante tutti gli sforzi, continuano ad essere tali, come Paperino, che cerca di invertire, almeno una volta, ma invano, la direzione del suo amaro destino di nullatenente.

Intorno a loro un mondo sempre uguale, destinato a perpetuare una realtà senza scopi, in cui ciascun personaggio assume un ruolo del quale è prigioniero per sempre. Il simbolo del dollaro non ha alcuna attinenza con i soldi guadagnati per vivere, ma solo un feticcio il cui valore risiede in sè stesso.
Mida e la sua tragica e misteriosa storia, ci accompagna, invece, in un altro aspetto della città del denaro: il desiderio del possesso. La preghiera di Mida a Dioniso riguarda, infatti, la trasformazione in oro di tutto ciò che egli tocca. Il desiderio di cambiare la realtà, il sogno di poter imprimere una svolta al cammino viene realizzato non con lo sforzo umano, ma con l’illusione, o peggio con la velleità.

Cosa può celare l’insistenza sul toccare? Mida avrebbe potuto chiedere di far diventare oro i suoi pensieri o tutto ciò che avrebbe baciato o altro. Invece la sua richiesta si ferma sul tocco delle mani. Perchè? Forse perchè il denaro non fa parte del regno dello spirito; è nemico dell’invisibile amore per la gratuità, si oppone all’impagabile gusto di fare bene le cose (i latini lo chiamavano, pensate un po’, studium), senza alcun contraccambio. Non a caso a Mida spunteranno, in un altro bellissimo mito, delle orecchie d’asino: il possesso bruto delle cose ci allontana dalla preziosità degli oggetti, dalla voce della materia quando è accompagnata da un soffio di pensiero, “ci rende sordi a ciò che muta per la grazia del dono”. E le nostre città? Cos’hanno della città del danaro?

Sono tanti gli aspetti che potrebbero essere indicati. Ci limitiamo ad alcuni.
Chiedete ad un giovane diciottenne cosa desidera di più o qual è il cambiamento a cui più tiene nel varcare la soglia della maggiore età; vi risponderà l’automobile. I sogni di molti dei nostri giovani, sono i sogni a cui noi li abbiamo educati: il ruolo sociale dipende dalla quantità di soldi che abbiamo e, ovviamente, dalla sua visibilità: l’automobile, la griffe, lo stile di vita.
Direi di più: il metro di valutazione è quasi sempre la quantità; il demone della quantificazione.

Perfino i nostri politici ed (ahimè!) non solo il giovanilista Berlusconi, paperone – caimano, che inquina la nostra vita politica, ma anche politici avveduti e più dimessi, sono ossessionati dai sondaggi. Per la città del denaro i problemi sono tali solo se i sondaggi li indicano come tali; per cui se la disoccupazione attira l’attenzione degli intervistati è un problema, altrimenti la possiamo soppiantare con le notti in discoteca di qualche vitellone, o il doping di qualche atleta. E questi ultimi problemi saranno nell’agenda del Parlamento.