I consumi e il carico sull’ambiente sono in aumento. Uniti agli stili selvaggi di consumo dei Paesi occidentali, formano un quadro preoccupante per la sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo.
Le attività economica pongono un carico sull’ambiente che varia in base al tipo di settore e all’intensità dello sfruttamento. Da almeno due decenni i costi ambientali sono entrati nelle valutazioni sul funzionamento del sistema economico; in particolare, le azioni preventive a lungo termine condizionano i cicli e le modalità di produzione.
Negli ultimi vent’anni è cambiata anche la scala geografica di riferimento delle questioni ambientali. In passato l’inquinamento e la pericolosità di certe attività erano un fenomeno locale, circoscritto ad un territorio ed era assai facile tenerli lontani dagli occhi e dalla mente; oggi le minacce all’ambiente e all’ecosistema hanno portata globale. Cernobyl (1986) ha dimostrato come un guasto nella remota Europa orientale può avere conseguenze drammatiche a migliaia di chilometri di distanza. Senza dimenticare che il sistema economico internazionale degli ultimi 10 anni ha visto emergere nuovi attori – Cina, India, Brasile – la cui crescita, per molti versi positiva, ha anche il rovescio di un’ulteriore pressione sulle risorse naturali globali.
La prima distinzione fondamentale nel dibattito sulla pressione ambientale delle attività umane è quella tra risorse rinnovabili e non rinnovabili. Queste ultime – come il petrolio – sono presenti in una disponibilità limitata e il loro eccessivo consumo mette in pericolo la reperibilità per le generazioni future. Diversamente a quanto si pensa il punto di rottura non è lontano; i principali consumatori di risorse rinnovabili sono i Paesi del Nord del mondo, ma l’avvicinarsi ai modelli di consumo occidentali di centinaia di milioni di persone nei Paesi del Sud ha portato la pressione antropica globale a livelli allarmanti. E altri “giganti” – come Indonesia, Sudafrica, Nigeria – continuano a crescere sia in termini di produzione (e quindi di impatto delle attività economiche sulle risorse) sia di popolazione (ossia di consumo delle stesse).
I modelli di consumo continuano a stare sul banco degli imputati. In questo caso le “responsabilità” dei cittadini dei Paesi industrializzati sono inequivocabili, essendo questi i principali consumatori mondiali di risorse naturali. Almeno dagli anni Settanta l’idea di una via sostenibile allo sviluppo ha cominciato a circolare in dibattiti e proposte, con l’accento posto sull’efficienza del sistema economico, sul rispetto degli equilibri ambientali e sulla solidarietà sociale anche verso le generazioni future.
Una delle prime conferenze delle Nazioni Unite sul tema (Rio de Janeiro, 1972) mostrò quella spaccatura tra Paesi industrializzati e resto del mondo che ancora oggi è un ostacolo alle misure di prevenzione.
La maggior parte delle economie sviluppate vorrebbe un calo indifferenziato nelle emissioni senza tener contro che la causa principale dell’inquinamento globale sono i consumi e le produzioni occidentali; i Paesi asiatici e latinoamericani in crescita vedevano – e ancora di più vedono oggi – queste proposte come un prezzo ingiusto da pagare per danni di cui sono responsabili altri.
Dal 1972 in poi tutte i grandi incontri internazionali sulle emergenze ambientali, e le relative convenzioni, hanno finito quasi sempre per deludere le aspettative. È stato così per il protocollo di Kyoto, che allo scadere del primo limite fissato (2012) ha fatto registrare un clamoroso flop nella riduzione delle emissioni inquinanti e ha dovuto “ripiegare” su una proroga del termine (2020).
In questo scenario così difficile sta prendendo piede la green economy, una serie di misure e di iniziative che ripensano in modo eco-sostenibile la produzione industriale, diffuse soprattutto in alcuni Paesi più sensibili al tema. Il modello dell’ “economia verde” – peraltro molto variegato – propone di intervenire non tanto o non solo sui consumi, ma soprattutto sulle modalità di produzione. Un posto importante in queste iniziative è occupato dalle misure legislative, dalla ricerca e dagli investimenti economici sulle energie rinnovabili. Oggi le fonti energetiche alternative rappresentano un mercato in crescita e hanno anche il merito di creare occupazione.
Ovviamente esistono dei Paesi all’avanguardia, mentre altri arrancano. Stoccolma – una delle grandi città più sostenibili del pianeta – è capace di ricavare energia anche dalle…persone. La stazione ferroviaria centrale dal 2010 riutilizza l’energia termica sprigionata dai 250.000 pendolari in transito (media giornaliera) – aspirata dal sistema di ventilazione e usata per far aumentare la temperatura dell’acqua – come sistema di riscaldamento di un edificio adiacente, con un risparmio sulla bolletta del 25%.
Fantascienza? No, risultato di consapevolezza, ingegno e investimenti. E un tocco di “coscienza locale”, in grado di far capire che il rispetto dell’ambiente e la sostenibilità, prima ancora che dalle grandi conferenze globali, passano dai comportamenti quotidiani.
(Fonte Foto:Rete Internet)