GIOVANI ED IMPERATORI

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I giovani non si chiedono più in quali orizzonti di senso agiscono. Gli adulti hanno il dovere di trovare risposte alla domanda sul senso della vita.

Alcuni amici mi hanno consigliato di spiegare meglio il titolo che abbiamo dato a questa rubrica, che si occupa del mondo delle fasce generazionali più giovani, tratto da un famoso testo del 1972 di Italo Calvino. Volentieri seguo questo consiglio, perchè mi offre l’opportunità non solo di spiegare i motivi della scelta, ma mi apre lo sguardo ad ulteriori riflessioni sul tema. “Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo, quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei Tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore”: così inizia il libro, con l’immagine di due uomini che dialogano.

Uno adulto e scontento, dominatore di un vastissimo impero, ma consapevole che non riuscirà mai a fermarne lo sfaldamento e un altro, giovane e curioso, viaggiatore inesausto, il Marco Polo del Milione, che invece illustra al suo sovrano le meraviglie delle città e gli instilla nell’anima il desiderio di credere ancora, di avere fiducia che tutto si possa salvare dalla rovina.
Il libro propriamente non è un romanzo, assomiglia di più ad una serie di racconti che descrivono le città che Marco visita o che forse immagina. Racconti intercalati da dialoghi profondi e sinuosi come quello già indicato. E in questa caratteristica risiede già buona parte del suo fascino, fatto di ricami immaginari, di descrizioni di sogni, di grande sensualità narrativa.

Tuttavia il motivo principale, che fa di queste pagine una metafora della nostra vita di adulti accanto ai giovani che ci passano davanti e incrociano le nostre esperienze quotidiane, è rappresentato dall’esigenza comune e suprema di “sfuggire al morso delle termiti”, dal bisogno vitale di fondare le nostre relazioni umane in maniera da non farle evaporare nelle nebbie dell’assenza di significato.
In questa prospettiva ciascuno di noi si sente interpellato fortemente, non solo da chi giovane e pensoso ha una richiesta di senso da porci, ma anche, e forse soprattutto, da quei giovani che hanno perso l’abitudine di chiedersi quali siano gli orizzonti di senso in cui agiscono ed esprimono la loro vita e vanno errando lungo il dolore delle perdute speranze.

Quali risposte abbiamo, noi adulti, alla domanda suprema sul senso della vita?
Il silenzio potrebbe già essere una risposta, se ne avessimo il coraggio. Pensate: educare i giovani alla risposta del silenzio, che non è resa al non senso, ma invito ad ascoltare altre voci, invisibili, nascoste dentro gli abissi dell’io, ma semi di vita nuova e albe da forzare a nascere.
Le città invisibili sono appunto le città del nostro desiderio e dell’utopia che illumina i nostri percorsi esistenziali. Una città in quanto tale è l’immagine dello sforzo costruttivo degli esseri umani, che in essa sposano il bisogno di dialogare con la necessità di scambiare i sogni, gli ideali, di fare più bello questo mondo: le città felici sono quelle in cui gli uomini si educano a diventare imperatori, signori della loro vita e insegnano ai giovani, come scrive Calvino a “cercare e a saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio”.