Ritorna Quentin Tarantino con un’altra “riflessione” spettacolare sul tema della vendetta, nel solito gioco di citazioni, cinefilia e divertimento puro.
Almeno da Kill Bill vol. I in avanti ogni commento su un nuovo film di Tarantino può essere più o meno riassunto nel seguente modo: “se vi piace Quentin lo adorerete, negli altri casi forse fareste bene a restare a casa”.
La teoria sta circolando molto anche per l’ultima fatica, Django Unchained; e banale o meno che sia, ci dice sicuramente una grande verità. Tarantino continua a fare film per divertirsi a suo modo, con le sue regole, la solita sintassi, pochi sofismi o tentativi di rinnovarsi. I temi, i movimenti di camera, gli occhiolini al pubblico rimangono sempre uguali; gli ingredienti pure – ironia, violenza, assurdità varie – solo mescolati in modo diverso. Dunque anche questo Django Unchained è puro Tarantino per tarantiniani? Ancora una volta il buon Quentin ha reso a tutti (critici, osservatori, pubblico) il compito facile facendo un film totalmente à la Tarantino, a uso e consumo del suo pubblico fedele e combattivo?
La risposta, crediamo, non può essere che sì. Django Unchained è allo stesso tempo un capolavoro, un passatempo, una pacchianata senza capo né coda. È la summa del mistero di un regista geniale e folle, capace di imbastire scene spettacolari sul nulla e arricchire il suo lavoro con la mania del citazionismo e dell’amarcord, tra omaggio sentito e furberie da vecchia volpe. Ancora una volta il talento è innegabile e sparso a piene mani. Ci appaga, lasciando colmi gli occhi quasi alla soglia dell’overdose, con estetismi raffinati (il sangue sui fiori di cotone) e il consueto balletto di violenze surreali, che esplodono quando la costruzione della tensione ha raggiunto per lo spettatore il massimo sopportabile (la firma del contratto prima del massacro). Sai che è lì, sai che il Furbastro sta per colpirti, ma non sai quando né come.
E c’è pure tutto il resto. I richiami al western, ovvio, ma anche al tanto amato cinema asiatico, presente nella ricerca del dettaglio estetico della violenza e nel leitmotiv della vendetta. Gli omaggi di Tarantino alla proprie passioni cinefile rimangono sempre sul piano della scenografia, del clichè, senza spingersi anche in recuperi tematici. È una bella zuppa dove gli ingredienti si confondono tra loro e se ne percepisce ancora la presenza, sebbene diversa dal sapore originale.
Django Unchained fa il suo inchino doveroso al genere spaghetti-western, più precisamente al Django di Sergio Corbucci del 1966, ripreso nel titolo, nel tema (razzismo) e nel cameo del protagonista Franco Neri. La storia tuttavia è una rielaborazione originale, che porta dritto al main theme della vendetta violenta. Nel Texas della seconda metà dell’Ottocento Il Dr. Schultz (uno straordinario Christoph Waltz) è un cacciatore di teste al servizio del governo, che sceglie di liberare lo schiavo nero Django (Jamie Foxx) per farsi aiutare nella sua prossima missione. I due diventano “colleghi”, con la promessa che il micidiale tedesco aiuterà Django a liberare la moglie dalle mani del ricco proprietario terriero e organizzatore di scontri tra schiavi neri Calvin Candie (Leonardo di Caprio).
Il film, manco a dirlo, è ricolmo di citazioni. Auto-citazioni, citazioni del genere, di altri film a casaccio (la lista è infinita, si spazia da Kubrick a Via col vento), di qualsiasi cosa sia passata per la testa sempre in movimento del regista. L’ingordigia del cinefilo non deve però trarre in inganno. La prima metà (circa 1 ora e 30 minuti, quasi un film a parte) mescola in modo efficace l’ironia data dalla strana accoppiata Waltz-Foxx a qualche trovata efficace sul piano della critica al razzismo della società americana prima della guerra civile. Gli attori gigioneggiano davanti alla telecamera costruendo personaggi super-caricati, mentre Tarantino si diverte dall’altro lato, alternando i linguaggi – momenti comici ad altri più duri – e le scelte formali – improvvisi primi piani Sixties, carrellate più distese, lenti simil-CinemaScope per i paesaggi sconfinati da Western.
La seconda parte (il secondo film?) vira decisamente sul piano della vendetta personale. Tutto gira intorno ad una cena a casa di Candie, al tranello imbastito dal Dr. Schultz e da Django e al momento inevitabile in cui questo verrà scoperto, dando fiato all’esplosione di violenza, grottesca ed insistita come d’abitudine. Django diventa così una Beatrix Kiddo più clownesca, in un clima che si fa caciarone e iperviolento, Il finale è quanto di più fumettoso il cinema di Tarantino abbia mai concepito: sangue a fiumi, uno contro tutti, esplosioni. La fantasia del regista si sbizzarrisce, la logica e la sceneggiatura diventano un dettaglio.
Insomma, in Django troverete tutto quello che vi aspettate e oltre. Il pubblico neutro apprezzerà di più la prima parte, mentre i tarantiniani duri e puri raggiungeranno il culmine del piacere nella seconda, dove il regista arriva probabilmente al punto di non ritorno del suo cinema e della mania citazionista: fare la caricatura, fino al massimo livello, di se stesso.
Regia di Quentin Tarantino, con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson
Durata: 170 minuti
Uscita nelle sale: 17 gennaio 2013
Voto 6.5/10
Ps: Una settimana dopo l’uscita di Django, Raitre ha lanciato in seconda serata alcuni film di Johnnie Too, regista cinese adorato da Tarantino. Nel vederli tutti a breve distanza l’effetto è strano; Django Unchained (o ancora meglio Kill Bill) sembra il miglior trailer possibile per Vendicami o A Hero Never Dies. E sorge il sospetto che la missione del cinefilo Tarantino sia quella di costruire divertenti promo extra-large per spingerci a recuperare le opere originali che sono alla base del suo cinema.


