Molti Paesi stanno emergendo come attori nuovi dell’economia e delle relazioni internazionali. La loro crescita è il simbolo della complessità del mondo globalizzato.
Le proteste in Brasile e Turchia hanno ragioni diverse e nascono in contesti culturali e politici non comparabili. Entrambe le situazioni però gettano una luce nuova e per certi versi inquietante su due dei Paesi con la crescita maggiore nell’ultimo decennio, accomunati da tassi molto alti, da una produzione di reddito in rapida espansione ma con ancora molti nodi da risolvere sul piano della sostenibilità dello sviluppo e della disparità nei livelli di ricchezza.
D’altronde questo è un modello diffuso nel mondo globalizzato. Fermi o molto bassi i tassi di crescita di parecchi Paesi occidentali, alle prese con crisi finanziarie e problemi di riconversione delle proprie economie, a trainare l’economia mondiale sono quelli che fino a venti anni fa venivano chiamati Paesi in via di sviluppo.
Oggi sono diventati giganti economici in crescita continua da diversi anni; risorse naturali, produzione manifatturiera di buon livello, grandi mercati interni, buona infrastrutturazione di base, sono alcuni dei fattori che hanno permesso a Brasile e Turchia, ma anche ad altri come l’Indonesia e il Sudafrica, di diventare potenze economiche con fondate ambizioni geopolitiche.
Se la Cina e l’India meritano un discorso separato, sia per ragioni politiche sia per una maggiore maturità dello sviluppo economico, tutte queste nuove potenze mostrano con intensità diverse profonde contraddizioni. I tassi di crescita dell’8, 9, 15% nascondono disuguaglianze sociali, l’aumento della forbice dei redditi e diverse criticità ambientali.
I prezzi sono quasi ovunque in aumento, colpendo soprattutto chi non ha ricevuto ancora benefici dalla crescita economica, e il livello medio dei servizi offerti è scadente. Le tensioni si accumulano e sono pronte ad esplodere soprattutto in quei Paesi dove sono maggiori la maturità politica e la partecipazione alla vita pubblica.
Al di sotto di questi Paesi, esiste un altro gruppetto di Stati la cui crescita è ancora più incredibile se rapportata alle condizioni economiche di appena un decennio fa. Si tratta di Paesi meno forti dal punto di vista politico e demografico – Brasile, Sudafrica, Turchia possono essere considerati tutti delle potenze regionali – ma con percentuali di crescita economica in alcuni casi ancora più alte.
A questa categoria appartengono Paesi fino a qualche anno fa fuori dai radar geoeconomici come l’Angola, la Nigeria, il Mozambico, il Perù. La loro struttura produttiva è molto semplice: la crescita è trainata dalle esportazioni di risorse naturali. Sembrerebbe un ritorno ai vecchi scambi di natura neocoloniale (e per alcuni versi è così), ma si assiste anche a investimenti crescenti nel campo delle infrastrutture e delle costruzioni, quasi totalmente finanziati da potenze straniere che hanno interesse a migliorare la qualità delle strutture di base.
Per questo gruppo di Stati le cifre vanno lette con attenzione ancora maggiore. L’Angola, indipendente dal 1975 e con due decenni di guerra civile e povertà assoluta alle spalle, è il Paese africano che cresce di più negli ultimi anni. Il PIL è in espansione, il reddito pro-capite anche e la quota di popolazione che vive in povertà è in leggera diminuzione.
La base del successo è il petrolio, insieme a diversi accordi commerciali con la Cina che continua a investire molto nel Paese.
L’Angola è una chiave per capire la complessità della globalizzazione. Il Paese deve la sua crescita all’integrazione con i mercati internazionali ed è, in questo senso, una delle economie più globalizzate al mondo. Questa connessione dipende completamente dal petrolio, la cui estrazione avviene in pochi punti, spesso off shore; le tecnologie sono straniere, come anche i lavoratori, e il capitale generato dall’esportazione non ha praticamente ricadute sulla qualità della vita locale e dei servizi offerti. L’estrazione del petrolio, fatta in questo modo, genera reddito per pochi ma non innesta una diversificazione dell’economia né uno sviluppo ancorato al territorio.
L’Angola è così “attaccata” all’economia globale tramite un filo debolissimo creato dai punti di estrazione del petrolio. Le percentuali di crescita, per quanto alte, viaggiano su questi fili, mentre il Paese reale si trova altrove, escluso dai processi di crescita, dallo sviluppo e dal “mito” della rete globale.
Questo gruppo di Paesi “in crescita” è il banco di prova della sostenibilità di certi modelli di sviluppo. La comprensione del mondo globalizzato passa sempre meno per la vecchia Europa o gli USA, mentre trova le sue rappresentazioni più complete in questi nuovi giganti dell’economia e delle relazioni internazionali, la cui fragilità sociale è una criticità globale.
(fonte foto: rete internet)