CI SONO PERSONE “PREDISPOSTE” AD ESSERE VITTIME DI REATI

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    1948

    Continuiamo il nostro approfondimento sulla “vittimizzazione”, ragionando su alcune teorie le quali hanno dimostrato che certe persone sono maggiormente predisposte a subire un reato. Di Amato Lamberti

    Mendelsohn, come Von Hentig, focalizzò l’attenzione sul ruolo giocato dalle vittime nel determinare i crimini violenti. La sua classificazione è fondata su una sorta di scala della partecipazione morale della vittima, e la elaborò sulla base dei suoi studi con un approccio giuridico-legale, cercava, infatti, di individuare il grado di provocazione della vittima nell’interazione con il criminale. Egli distingueva tra:

    -La vittima completamente innocente. Si tratta di coloro che non hanno alcun comportamento provocatorio o facilitante prima dell’attacco dell’aggressore (come nel caso dei bambini). La vittima, in questo caso, ha un ruolo totalmente passivo.
    -La vittima che ha meno colpa del criminale. In questo caso la vittima ha sì un ruolo attivo, ma solo perché ha adottato un comportamento imprudente o negligente, finendo per porsi in una situazione di pericolo. Mendelsohn denominava questo secondo gruppo anche “vittime dovute all’ignoranza”.
    -La vittima colpevole tanto quanto il criminale. Si tratta di una categoria particolare che includeva i casi di suicidio e coloro che assistevano o cooperavano con altri nel commettere dei crimini, cadendone vittime.

    -La vittima provocatrice. Tale categoria raggruppa le vittime che istigano e provocano l’atto criminale.
    -La vittima più colpevole del criminale. In questo gruppo sono incluse le figure di criminale-vittima, ossia di criminale che nel corso dell’esecuzione dell’azione illecita subisce la vittimizzazione da parte del suo antagonista che agisce per autodifesa.

    Gli assunti su cui si basavano le teorizzazioni di Von Hentig e Mendelsohn hanno destato vivo interesse tra gli studiosi di criminologia, provocando un ampio dibattito intorno alla figura della vittima, tanto da aprire un nuovo settore di indagine e da porre le premesse per nuovi programmi di ricerca. In particolare, alcuni studiosi hanno ulteriormente elaborato i concetti esposti dai due studiosi e hanno condotto ricerche dirette ad approfondire la conoscenza delle caratteristiche individuali che favoriscono la vittimizzazione.

    La convinzione che la probabilità di diventare vittima di un crimine non sia ugualmente distribuita fra tutti gli individui e che certe persone siano maggiormente predisposte a subire un reato è stata dimostrata, fra gli altri, da Fattah (1971). Facendo riferimento al concetto di vittima latente di Von Hentig, Fattah riteneva che nella vittima esistessero tre differenti tipi di predisposizioni specifiche: biopsicologiche (età, sesso, razza), sociali (occupazione, condizione economica, condizioni di vita) e psicologiche (deviazioni sessuali, desiderio di appagare il bisogno sessuale, estrema confidenza e fiducia, tratti del carattere).

    Nel 1958 Wolfgang espose il concetto di “victim-precipitation” indicando, con questo termine, tutti quei casi in cui sarebbe la vittima ad essere implicata direttamente ed attivamente nella genesi, nella dinamica e nell’esito finale dell’azione criminale, avendo determinato il proprio rischio di vittimizzazione e facendo “precipitare” il reato. In realtà, questo concetto suscitò diverse critiche in
    relazione al fatto che il ruolo del criminale poteva risultare del tutto passivo, visto come soggetto che entra in azione attraverso le sollecitazioni della vittima. È per questi motivi che diversi autori preferiscono sostituire l’espressione “victim-precipitation” con “victim-partecipation”, sottolineando da una parte la partecipazione e la facilitazione fornita dalla vittima, dall’altra l’interazione con un soggetto comunque attivo.

    Lo stesso concetto di partecipazione della vittima nella dinamica del reato è ravvisabile negli studi di Avison che, interessandosi ai casi di omicidio avvenuti tra il 1950 e il 1968, sostenne che nella quasi totalità dei delitti considerati era stata la futura vittima ad incoraggiare un comportamento violento da parte dell’aggressore.
    Uno studio più organico relativo alle qualità della vittima e al suo rischio di vittimizzazione è quello fornito da Sparks. L’autore sostenne che sei sono le caratteristiche più importanti:

    • la vulnerabilità, tipica di quei soggetti che, per il loro comportamento, stile di vita, status sociale, risulta ad alto rischio di vittimizzazione;
    • l’opportunità, ossia la disponibilità di un bene;
    • l’attrazione, relativa alla tentazione che un bene della vittima ha sul criminale;
    • la facilitazione, come situazione rischiosa in cui la vittima si trova per imprudenza o negligenza;
    • la precipitazione, indicante comportamenti della vittima che incoraggiano reazioni violente del criminale; 53
    • l’impunità, ossia l’improbabilità che la vittima denunci a breve il reato per cui l’autore può agire senza timore.

    A seguito di queste e di simili ricerche, tuttavia, è stato sottolineato come in molti casi non sia il comportamento della vittima a far scattare il reato, ma la percezione, spesso distorta, che di esso ha l’autore del crimine: attraverso meccanismi di neutralizzazione del sentimento di colpa, quest’ultimo attribuisce alla vittima intenzioni e responsabilità in realtà inesistenti.
    Dopo i primi studi pioneristici, incentrati in prevalenza sulla relazione autore-vittima, la vittimologia ha sviluppato nuove linee di ricerca, che hanno attribuito rilevanza alle situazioni e al contesto sociale che favoriscono la vittimizzazione.

    Il primo tentativo di sviluppare un modello teorico in grado di spiegare le differenze nel rischio di diventare vittima di reato deve essere fatto risalire al 1978, anno in cui Hindelang, Gottfredson e Garofalo elaborarono il cosiddetto “modello di vittimizzazione basato sullo stile di vita o sull’esposizione al rischio” (lifestyle/exposure model of victimization). Secondo questo modello, lo “stile di vita” (intesa come la consueta attività svolta dalle persone, inerente sia alla loro sfera lavorativa sia al loro tempo libero) inciderebbe sulla probabilità di diventare vittima di un reato contro la persona e ciò, in particolare, attraverso l’intervento di due variabili:
    -L’esposizione al rischio, cioè il grado di esposizione delle persone nei luoghi e nei momenti caratterizzati da un differente rischio di vittimizzazione;
    -Le associazioni, cioè la frequenza con cui le persone si trovano in associazione con altri individui più o meno inclini a commettere reati.

    Questo modello è stato ripreso da Cohen e Felson (1979) e ribattezzato “approccio basato sull’attività routinaria” (routine activity approach), laddove per attività routinaria si intende: «ogni ricorrente e prevalente attività che soddisfa i bisogni fondamentali della popolazione e dei singoli individui». Come sottolinea Garofalo esistono notevoli somiglianze tra i due modelli in quanto entrambi trascurano l’indagine sulle motivazioni che possono spingere un individuo a commettere un atto criminale e considerano l’inclinazione criminale come un dato di fatto; entrambi rivolgono la loro attenzione al contesto che permette alle inclinazioni di trasformarsi in vere e proprie azioni; entrambi attribuiscono rilevanza, più che alle caratteristiche individuali delle persone, al comportamento dei gruppi consociati.

    Sono state poi elaborate teorie di vittimizzazione che fanno riferimento non alle persone o alle situazioni, ma alle caratteristiche dei luoghi, le cosiddette “deviant place theory” (Starks 1987). Quest’ultime hanno messo in evidenza il fatto che il tasso dei reati è particolarmente elevato in quartieri poveri, densamente popolati, con alta mobilità della popolazione.
    Sampson e Castellano (1982) osservano, in base a quanto emerge dai dati statistici del National Crime Survey, che esiste una relazione negativa tra condizione economica dei quartieri (misurata in base alla percentuale media di reddito e di disoccupazione) e percentuali di crimini contro la persona nelle zone metropolitane di alcune città degli Stati Uniti.

    In tempi recenti, la vittimologia si è posta anche l’obiettivo di conoscere più da vicino quelle che sono le conseguenze psicologiche, economiche e sociali vissute dalle vittime del reato, per alleviarne disagi e sofferenze. Studiando tali conseguenze, la letteratura criminologica internazionale ha distinto il danno “primario” dal danno “secondario”: mentre il primo deriva direttamente dal reato, il secondo deriva dalla risposta informale o formale alla vittimizzazione.
    (Fonte foto: Rete Internet)

    LA VITTIMA DEI REATI