La nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana su Chiesa e Mezzogiorno ha favorito una riflessione sulla “timidezza della chiesa di fronte alla criminalità mafiosa”.
Di Don Aniello Tortora
Sull”ultimo numero di Famiglia Cristiana vengono riportati gli interventi di alcuni vescovi che, con passione, commentano la Nota Pastorale della CEI su Chiesa e Mezzogiorno.
Sono commenti, a mio avviso, molto severi, durissimi, ma veri e da approfondire. I vescovi, tra l”altro, riflettono sul rapporto tra la Chiesa e la criminalità organizzata. Ne viene fuori un quadro non proprio esaltante: una Chiesa spesso poco coraggiosa e che, in alcune manifestazioni religiose, non riesce ad essere libera dalle cosche mafiose. La Chiesa è stata “a volte troppo timida di fronte alla mafia, ed è ora di scelte coraggiose per il Sud”: hanno affermano tre vescovi del Sud.
“La nostra gente deve ridiventare protagonista”, dice il vescovo di Locri. “Forse bisognava essere più chiari, anche nelle responsabilità di una Chiesa troppo timida”.
Ecco il punto, che il vescovo di Agrigento, spiega così: “A volte manca il coraggio. Ci chiudiamo nelle chiese, non ci sporchiamo le scarpe a camminare nelle strade. Dobbiamo impegnarci a costruire comunità cristiane antagoniste, alternative alla cultura della rassegnazione, della violenza, dell”usura, del pizzo, del lavoro nero”. Il vescovo di Agrigento ha proposto di “abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi”.
Ma c”è anche altro che il vescovo di Agrigento sottolinea: “Ci siamo occupati del sacro e non della fede. La gente ci chiede sacramenti e noi glieli diamo. Ma nascondiamo la parola di Dio e sosteniamo un”idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, ma non incidono e non cambiano i comportamenti”.
Riprende l”autocritica della nota della Cei sul fatto di non aver accolto, fino in fondo, la lezione di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi e il suo grido contro le mafie: “Non tutti siamo sulla stessa lunghezza d”onda. Non abbiamo avuto il coraggio di dirci la verità per intero, siamo noi i primi a non essere stati nemici della corruzione e del privilegio. Non va moralizzata solo la vita pubblica, ma anche quella delle nostre chiese. E la parola terribile “collusione” deve far riflettere anche nelle nostre comunità”.
Anche Mons. Riboldi, che noi campani conosciamo bene, è intervenuto dicendo: “Le mafie hanno avuto terreno fertile, arato dallo Stato e da un sistema di corruzione e di collusione impostato con straordinaria efficacia e la gente ha subìto e si è rassegnata. Ma la cultura dell”illegalità è stata diffusa dallo Stato. E non mi consola vedere che proprio chi ha contribuito alla logica della corruzione propone una legge contro di essa”.
La Chiesa accusa oggi un indubbio ritardo culturale sul fenomeno mafioso. Dopo la fase della denuncia all”epoca dei grandi delitti eccellenti, tra la fine degli anni “70 e l”inizio degli “80, fino alla vigilia del martirio di don Pino Puglisi, si è nuovamente instaurata, negli ambienti ecclesiastici, la tendenza a trattare Cosa Nostra e tutta la criminalità organizzata come fenomeno marginale, epidemico, della società meridionale, una organizzazione criminale ed un problema tra i tanti.
Occorre convincersi che la mafia non è solo un effetto ma principalmente una causa (se non La Causa) dei mali, anche morali, del Sud. Dal punto di vista teologico ciò significherebbe rendersi conto che la criminalità organizzata è una forma di apostasia che persegue un progetto diametralmente opposto a quello che Cristo affida alla comunità ecclesiale.
Riguardo al fenomeno mafioso, il compito dei cristiani è quello di destrutturare gradualmente la sua natura peccaminosa, facendo leva appunto sulla sua radice umana deviata, risanandola. Un lavoro assai complesso che prevede l”elaborazione di una completa strategia: lo sviluppo di tutta una cultura della responsabilità politica dei cristiani, l”elaborazione di pedagogie, metodi di lotta e persino linguaggi radicalmente liberati da ogni ombra di violenza. Oggi risulta oltremodo chiaro che il fenomeno mafioso, in quanto esplicitazione di un”antropologia aberrante, ha una sua rilevanza morale e teologica. La pregiudiziale antimafiosa diventa sempre più preliminare in qualsiasi progetto di nuova evangelizzazione che voglia applicarsi seriamente a ricristianizzare il meridione.
Un autentico salto qualitativo dell”azione ecclesiale contro la mafia avverrà quando si sarà effettivamente preso atto che la mafiosità rappresenta, rispetto all”evangelizzazione, un vero e proprio controprogetto, che persegue interessi e scopi programmatici diametralmente opposti a quelli della comunità ecclesiale e rappresenta perciò un oggettivo e formidabile impedimento per la salvezza integrale dell”uomo e per lo sviluppo della società meridionale.
Rispetto alla religiosità popolare da parte della chiesa si è abbassata da una decina d”anni l”attenzione a questi fenomeni. Vi sono forme scandalose di feste patronali gestite da settori della criminalità organizzata. La devozione popolare deve essere purificata dal dio denaro e da infiltrazioni malavitose. Sulle collusioni ecclesiali della mafia si deve avere il coraggio di dire di più e di prendere finalmente le distanze.
“Bisogna tagliare i ponti tra le nostre chiese e la cultura mafiosa, che spesso dimostra di essere devota” – ha detto Mons. Riboldi. I cristiani (vescovi, parroci e laici) al Sud devono svegliarsi e, con coraggio, dare il loro concreto contributo per “osare la speranza” e creare condizioni di liberazione dall”illegalità diffusa e da atteggiamenti mafiosi che stanno dentro ciascuno di noi.
(Fonte foto: Rete Internet)