A Ciro Esposito la Madre ha dato la vita due volte

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La signora Antonella Leardi ha saputo dare un senso profondo e definitivo alla morte assurda del figlio Ciro e dunque gli ha donato di nuovo la vita, nella perfezione del simbolo del sacrificio.

La morte non sopprime la vita, ne sospende il corso.
Seneca

Certe storie di vita e di morte vanno raccontate: temo che i diabolici strumenti di comunicazione che la scienza oggi ci fornisce ci toglieranno, a poco a poco, anche questa forma di sopravvivenza.

La morte di Ciro Esposito può essere raccontata in molti modi: uno scettico meccanicista la vedrebbe architettata dalla malignità del caso che intreccia le linee esistenziali di due uomini, fino a un attimo prima ignoti l’uno all’altro, e fa sì che il colpo sparato dalla follia omicida di uno dei due provochi il ferimento e la morte dell’altro.

Ucciso dal connivente concorso del caso, della brutalità assassina di uno sparatore e della inettitudine dello Stato, Ciro Esposito sarebbe stato presto dimenticato, se la signora Antonella Leardi, la Madre, non gli avesse ridato la vita, una seconda volta, e nel modo più drammatico: dimostrando che nella morte assurda del figlio c’è un significato autentico, profondo, c’ è un segno che smaschera l’orrore banale della violenza e fa di quella morte un rito sacrificale.

Antonella Leardi ha avuto la forza di vedere, al di là della nera notte del suo dolore, che la morte del figlio ha la ragionata potenza di un simbolo vivo, e che c’è una logica anche nel fatto che questa funzione simbolica viene affidata al più napoletano dei nomi, Ciro Esposito.
Ma anche le parole della signora Leardi si sarebbero spente nelle ceneri di emozioni intense e brevi, nelle lacrime che fatalmente si asciugano, se non fossero state segnate, una per una, e in ogni momento della lunga agonia di Ciro, in cui si alternavano crudelmente speranza e paura, dalla compostezza e dall’ orgoglio della dignità con cui la Madre ha smascherato la mediocrità di chi non è all’altezza del ruolo pubblico che gli è capitato di svolgere, di chi non sa leggere il senso delle cose.

A questi personaggi la signora l’ha detto chiaramente: la morte di mio figlio non vi appartiene, e dunque non vi voglio accanto alla sua bara, non voglio che siate presenti quando chiederò, in nome di Ciro, che non ci sia più spazio per la violenza e per le parole della vendetta. La voce della Madre che chiedeva la pace, che cercava di far capire a tutti che nuove violenze e l’insensata vendetta avrebbero ucciso di nuovo e per sempre suo figlio, questa voce dignitosa e scarna veniva da Napoli, da Scampia: e si è meravigliato del fatto solo chi non conosce i molti volti di Napoli: capita anche a molti Napoletani, di ignorarli.

Non è un caso che l’analisi più fine della figura della Madre nella letteratura napoletana l’abbia sviluppata una studiosa francese e che anche cattedratici dal nome sonante continuino a pensare che c’è poca verità storica, che c’è solo “teatro”, in certe drammatici personaggi della Serao, di Viviani, di Di Giacomo.
Ha scritto Umberto De Gregorio: “La città ritrova unità e forza nel quartiere di Gomorra per la vittima di una violenza anti-sportiva, come poche volte è accaduto storicamente con la stessa evidenza quando a morire è stato un innocente sotto i proiettili della criminalità organizzata” (la Repubblica, 29 giugno).

Non seguo il filo del ragionamento. I genitori, i parenti delle vittime innocenti della camorra chiedono giustizia, ma non sanno chi sono gli assassini: la camorra è un mostro a troppe teste, e il suo corpo ha un profilo vago. La morte di Ciro è tutta un’altra storia. Se la signora Leardi non avesse senza sosta pronunciato parole di pace, se solo si fosse chiusa nel silenzio, un incendio catastrofico si sarebbe sprigionato dalle fiamme dell’odio, che già crepitavano contro autori e mandanti morali dell’assassinio del figlio: i mandanti morali sono i cattivi maestri del tifo.

Alcuni giornalisti hanno raccontato i funerali di Ciro elencando chi c’era e chi non c’era, indicando i nomi di autorità di vario taglio che avevano preferito andare alla festa di Marinella. E tuttavia la piazza di Ciro era politica, come ha scritto Eduardo Cicelyn: credo che lo fosse proprio perché non c’erano né ministri, né sedicenti rappresentanti del popolo: nella circostanza sarebbero risultati superflui, perché in quella piazza, trasformata in agorà, c’era il popolo, e c’era il sindaco eletto dal popolo, e il sindaco portava la fascia.

E dunque il dott. De Magistris, e lui solo, doveva fare – un dovere istituzionale e etico -, in quell’agorà, il discorso che ha fatto. Qualcuno non ha approvato: ma non è possibile accontentare tutti. Il sindaco di Napoli, che è stato magistrato, ha detto una cosa assai grave: “a Roma, quella sera, il sistema dell’ordine pubblico non ha funzionato: ne sono testimone”.

C’era, a Scampia, il sig. Gioacchino Alfano, sottosegretario alla Difesa, che nei giorni dell’agonia di Ciro è stato vicino alla famiglia Esposito. Angelo Agrippa gli chiede: “Perché prefetto e questore di Roma restano ai loro posti ?”. ( Corriere del Mezzogiorno, 28 giugno). E il sig. Alfano risponde: “Sono in corso delle indagini, è giusto che si proceda con speditezza, ma anche con scrupoloso impegno. E credo che alla fine arriveremo a chiarire ogni responsabilità… Posso assicurare che giustizia sarà fatta”. Non mi permetto di dubitare della sincerità delle intenzioni del sig. Alfano, ma egli ha usato le parole di un repertorio ormai logoro: scrupoloso impegno, posso assicurare, credo che alla fine arriveremo…

Come stanno le cose, lo spiega, nello stesso numero del “Corriere del Mezzogiorno”, Antonio Polito: “Se un ragazzo viene ferito a morte davanti allo stadio, vuol dire che chi organizzava la sicurezza ha fallito. Stop.”. E poi, sig, Alfano, per chiudere le indagini, queste indagini, due mesi dovrebbero bastare. In un Paese serio.
Foto: U.Boccioni, Tre donne (la Madre, la sorella, l’amata), 1909-10

LA STORIA MAGRA