Lo storico francese Lucien Febvre (1878 – 1956) chiarisce bene che compito dello storico è unire insieme, nella ricostruzione dei fatti, le informazioni fornite dai documenti scritti e quelle delle fonti materiali intese nella maniera più ampia. L’indagine storica, quindi, può progredire e giungere a risultati di conoscenza solo se riesce a collegare nel modo migliore i dati che provengono dalle diverse fonti. E’ il caso, come vedremo, della storia della Chiesa di S. Maria a Castello.
Il 19 gennaio del 1623, il Preposito Generale della Congregazione dei Pii Operai, Padre Don Carlo Carafa (1561 – 1633) comprò da Giovan Domenico di Mauro, per mano di Notar Marco Antonio Izzolo, lo loco con case chiamato S. Maria a Castello nella Terra di Somma con molti territori contigui a detta chiesa (cit. D. Parisi). A riguardo, il religioso comprò quel sito, col peso del censo da pagarsi ogni anno al diretto proprietario, dopo aver venduto il suo bestiame e ricavato mille scudi. La suddetta Congregazione era stata istituita da Papa Gregorio XV (1554 – 1623) il 1° aprile del 1621. In quella masseria, distante dal centro del paese, esisteva, già nel 1561, una chiesa senza rettore, Santa Maria de lo Castro, provvista di tre tovaglie, un messale, due candelabri in legno, una conam magnam cum imagine B(ea)te Marie de relevo (del sollievo), quamdam conam parvam cum imagine Nativitatis, un panno vecchio ed ingiallito per l’altare ed una mediocre campana. Oltretutto, un’acquasantiera in marmo – situata attualmente sulla destra dell’entrata, recante la scritta sulla base A(n)no Salv(atoris) No(st)re (i) MDLI, cioè 1551 – ci porta ancora indietro di altri dieci anni. Nel 1586 era rettore tale Fabio Lanario dimorante, allora, in Roma. Nel 1616, invece, il rettore era Ottavio d’Alessandro, che per sua devozione celebrava una Messa ogni sabato, non avendo detta chiesa né rendite, né arredi sacri (Santa Visita 1616). La chiesetta era ubicata poco distante dalla regia cappella di Santa Lucia di epoca angioina (1271 ca.).
Padre Carafa si ritirò in austera contemplazione in quella sua masseria con tre sacerdoti, e qui visse per alcuni anni una dolce vita, attuando i suoi propositi missionari. In questa chiesa, dicesi, che vi collocasse similmente una statoa della Beatissima Vergine scolpita in legno, come ci riferisce il parroco di San Giorgio Martire, Don Antonio Figliola, in uno estratto di una sua relazione del 1713, pubblicata sul libro del Padre domenicano Serafino Montorio dal titolo Zodiaco di Maria, ossia le dodici province del regno di Napoli del 1715. Certamente, questa notizia non concorda con la Santa Visita del 1561; infatti, all’epoca, come abbiamo già letto precedentemente, il Vescovo nolano Antonio Scarampo attestava già in loco una venerata conam magnam cum imagine della Vergine de relevo (statua della Vergine del Sollievo), detta popolarmente di Castello; inoltre, Padre Pietro Gisolfo, successore di Carafa alla guida della congregazione, non fa nessun accenno alla statua nella sua opera Vita del P.D. Carlo Carafa del 1667. Quel luogo, comunque, divenne subito un rifugio per tutti quei poveri contadini del posto che, conoscendo la pietà del religioso, andavano a rifornirsi gratuitamente di legna, vino, pane, frutta e così via. Don Carlo Carafa si fermò in questo luogo solitario fino al 1929: lasciò la chiesetta per andare a fondare un’altra casa religiosa a Montedecoro, attuale frazione di Maddaloni. A tal riguardo, il Vescovo di Caserta – riferisce Padre Pietro Gisolfo – gli fece dono di una cappella dove era venerata, sin dal 1626, un’immagine votiva della Madonna. Padre Carafa, vedendo che il sito di Maddaloni era più confacente al fine che pretendeva, vendette subito quello di Somma e con quei denari comprò la terra sufficiente per costruire un nuovo complesso intorno a quella venerata cappella.
La piccola struttura sommese, infatti, con i suoi terreni contigui, fu rivenduta nuovamente dal Carafa alla famiglia di Mauro, stavolta a d. Francesco Antonio. La scelta di Carafa di vendere la struttura sommese era dovuta anche al fatto – riferisce Padre Gisolfo – che per mantenerla vi bisognava spesa non ordinaria, oltre il peso insopportabile del censo.
In questo modo stiede quella cappella fino all’anno 1631 – riporta il Rev. D. Antonio Figliola – quando sdegnato il nostro Dio per li peccati commessi in questo Regno dispose castigare questi Popoli coll’orribile eruzione del Monte Vesuvio. La cappella di Castello fu interamente distrutta dalla furia del vulcano. Dalle rovine fu rinvenuta la sola testa della Madonna, che, come ben sappiamo, fu inviata a Napoli ad un eccellente scultore, affinché fosse ricostruito il busto. La tradizione, all’epoca, attesta il primo miracolo avvenuto alla figlia storpia dello scultore. Il 2 dicembre del 1637 morì Padre Colacito, eremita per trenta anni in questo luogo sacro. All’epoca la chiesa faceva parte dell’ ottina della Parrocchia di San Giorgio Martire. Intorno al 1650 – conclusi definitivamente i lavori di ricostruzione, grazie al benefico intervento del nobile Antonio Orsino, peraltro anche cofondatore della nobile Congrega della Morte – la statua della Vergine, dopo aver sostato nella più vicina chiesa di San Lorenzo, fece ritorno trionfalmente con una solenne processione nella sua cappella nel giorno dell’Ottava di Pasqua di Risurrezione. A riguardo, Don Antonio Figliola, nella sua relazione del 1713, non specifica quale giorno dell’Ottava fosse all’epoca: la tradizione popolare, però, confida nel VII giorno, cioè Sabato in Albis.
Nel 1654, l’Università spese carlini trenta per lo quadro del Beato Gaetano, messo nella d(ett)a Chiesa. Il 27 gennaio del 1662, Francesco Antonio di Mauro lasciò per testamento al Venerabile Monastero delle Donne Monache Carmelitane della Città di Somma il territorio su cui era costruita la chiesetta di S. M. a Castello. Lo storico Francesco Migliaccio, nelle sue notizie inedite, ci narra di una controversia nata tra le monache e d. Giuseppe Orsino – procuratore ed amministratore, insieme a d. Ridolfo Marano, dei beni di detta chiesa già dal 1656 – circa l’attribuzione delle oblazioni raccolte, in quanto la chiesa ricadeva sul territorio lasciato alle consorelle dal suddetto Francesco Antonio di Mauro, come già riferito precedentemente. Il nobile Giuseppe Orsino, come riferisce lo storico Angelo Di Mauro, chiamato in paese con il soprannome di sparapose, era un personaggio molto ambiguo, fratello di quel d. Antonio Orsino che aveva finanziato la ricostruzione della chiesetta. La causa arrivò, addirittura, dinanzi al Vescovo di Nola, Mons. Francesco Gonzaga, e alla Curia Metropolitana di Napoli. La sentenza, alla fine, stabilì che d. Giuseppe Orsino non doveva più intromettersi nelle cose della chiesa di Castello e, oltretutto, doveva consegnare chiavi, paramenti e tutto altro, e dare i conti. All’epoca della contesa, nel 1622, come riferisce un documento dell’Archivio della Collegiata di Somma (busta 54), allegata agli altri documenti, vi era anche una supplica cittadina, in cui si attestava che la chiesetta era stata riedificata dagli stessi abitanti già 200 anni prima. La notizia, quindi, ci assicura che la cappella era già esistente intorno al 1462 circa. Le consorelle, comunque, come padrone del luogo, mantennero al servizio della chiesa alcuni romiti e la fornirono di arredi sacri e di ogni altro bisognevole decoro. Il sabato e la domenica in Albis vi facevano celebrare una solenne festa in onore della Mamma Regina Maria cui, col presente Figlio e Spirito, sia a laude e gloria per tutti i secoli dell’eternità (Lapide del Palazzo Coppola in via Castello).
Il 21 aprile del 1707 morì, all’età di ottanta anni, Frate Antonio Vignali, eremita di detta chiesa, ove dimorava da circa trenta anni. Il 13 dicembre del 1749, il frate Domenico Capasso, eremita, morì e fu ivi sepolto. Nel 1744, come attesta il Catasto onciario borbonico, la cappella era grancia del monastero delle Carmelitane. Nel 1751, era ancora affidata alle cure delle monache, mentre nel 1767 stavasi restaurando (Migliaccio Francesco, Notizie di Somma Vesuviana dal 1268 al 1885 – 1939, inedito). Precedentemente, il 27 marzo del 1752, Frate Giosafat de Madero morì all’età di 104 anni, mesi uno e giorni 8. L’eremita, vissuto per ben 74 anni in solitudine, locum ampliavit vetustae Cappellae, sepulturam pro eremitis effodit, turrem pro campana extruxit, et campanam semel et iterum ruptam renovavit, cellulas edificavit, et habitationes restaurando multiplicavit, et in quella sepultum fuit. Nel 1800, il terreno vitato di circa moggia due, che circondava la chiesetta, apparteneva a d. Gennaro e d. Giuseppe de Felice, come si attesta nella Descrizione dei territori della pianta di Somma del cartografo Luigi Marchese di quell’epoca.
Nel 1829, afferma lo storico Francesco Migliaccio, la chiesa dicasi di essere di pertinenza dei PP. Domenicani di Napoli; lo stesso si diceva nel 1855, quando la cappella fu trovata in buono stato. Il prof. Raffaele D’Avino afferma, però, che nel 1834 la chiesa era stata già ceduta dai Domenicani al parroco Don Pietro di Mauro, cui si avvicendò il nipote Don Felice di Mauro (teologo). Comunque, dopo diversi passaggi ereditari tra la famiglia di Mauro, la chiesetta passò, dapprima, alla famiglia Majello (1840 – 1850) e, successivamente, ai de Felice (1866 – 1873), per poi ritornare ai di Mauro (1877 – 1914). Nel 1920 circa, la struttura fu acquistata da Suor Angelina Coppola da Marigliano. In questo luogo, la religiosa si trasferì con un nucleo di orfanelle, tra cui ricordiamo la singolare figura di Assunta Ferruccio di Bisaccia, la cui figura è stata già ricordata dallo scrivente in un articolo del 2018. Nel 1947, gli eredi di Suor Angelina alienarono il luogo sacro a favore delle Suore Francescane Elisabettine, dette Bigie, da cui l’Amministrazione cittadina – esaudendo l’ardente voto del popolo sommese – lo riscattò, ordinando, nel 1957, rettore il Rev. Don Armando Giuliano. Nel 1964, venne finalmente aperta dall’Amministrazione Provinciale una strada che collegava, finalmente, il centro del paese con la chiesa.
All’epoca, fu anche presentato un progetto di una nuova chiesa per poter sopperire all’accoglienza dei numerosi fedeli provenienti da ogni dove. Di quel progetto dell’Architetto Michele Sebastiano Cennamo rimane, attualmente, solo un vecchio plastico (vedi foto) costruito e fotografato, all’epoca, dall’appassionato scultore Giorgio Perna (cit. D. Parisi).