In Italia non era mai accaduto un agguato mortale ad un uomo con la tonaca. Quell’uomo fu don Peppino Romano, parroco di Somma Vesuviana, docente di Scienze nel locale liceo Scientifico Torricelli. Rimasto gravemente ferito, morì 34 anni fà in ospedale, proprio quando sembrava che potesse salvarsi. Il ricordo in un’ intervista al giornalista e scrittore Bruno De Stefano.
Era la mattina del 5 gennaio del 1986 quando, all’estremità di via Mazzini nel popoloso Rione Raimondi di Somma Vesuviana, un commando si affiancò a una Volkswagen Golf e sparò a ripetizione su un uomo che guidava l’auto. Quell’ uomo era don Peppino Romano, parroco di Somma Vesuviana, docente di Scienze nel locale liceo Scientifico E. Torricelli. Dopo la sparatoria, rimasto gravemente ferito, morì pochi giorni dopo in ospedale, proprio quando sembrava che potesse salvarsi, come afferma il brillante giornalista Bruno De Stefano nel suo libro “I Grandi Delitti che hanno cambiato la storia d’Italia”, Ed. Newton Compton.
Don Peppino era nato il 3 gennaio 1934 a Somma Vesuviana nella Masseria Serpente, famiglia contadina la sua. Le sue incoscienti frequentazioni avevano creato non poco imbarazzo alla Chiesa: il giovane parroco della Chiesa di San Michele Arcangelo di Ottaviano, infatti, era amico sin dalla giovinezza di Raffaele Cutolo, divenuto poi il potente e sanguinario capo della nuova camorra organizzata. Don Peppino lo aveva preso sotto il suo manto protettivo quando era solo un esagitato giovanotto ottavianese e lo aveva seguito pure dopo il primo omicidio avvenuto nel 1963 per futili motivi contro un coetaneo. I due non avevano mai smesso di volersi bene e di restare in contatto neppure quando Cutolo era, poi, diventato il capo della nuova criminalità organizzata. Oltretutto il Romano – continua Bruno De Stefano – era in eccellente rapporto soprattutto con Donna Rosetta, la sorella del boss, che gli chiese di aiutarla soprattutto dopo che il fratello era finito in carcere per l’uccisione sopra citata. Cutolo, come ben sappiamo, fu ritenuto insano di mente e spedito all’ospedale psichiatrico di Aversa. Qui Don Peppino gli fece visita ben due volte: sui registri d’ingresso, infatti, il prete risultava attestato una volta come cognato e la volta successiva come cugino. Quando Cutolo tornò in carcere, dopo la latitanza, ormai condannato all’ergastolo, Don Romano diventò uno dei principali riferimenti di Rosetta, la donna che gestiva la cassaforte del clan e si occupava di tenere i rapporti con gli affiliati in libertà. Il vantaggio di indossare l’abito talare lo portò a fare da autista e da accompagnatore alla donna per diverso tempo, soprattutto quando quest’ultima fu costretta a darsi alla latitanza. Nel maggio del 1983, però, Don Peppino fu arrestato con l’accusa di favoreggiamento dopo il ritrovamento, in un appartamento, di un carteggio dal quale si arguì che tra il prete, il boss e sua sorella c’erano stati rapporti che nulla avevano a che vedere con la fede. Un’altra documentazione compromettente fu rinvenuta nell’abitazione del sacerdote a Somma Vesuviana. Secondo la magistratura napoletana, don Peppino Romano non era estraneo all’organizzazione camorristica. Tant’è che fu spedito ad un soggiorno obbligato a Macerata. Tale provvedimento fu poi revocato dopo due mesi. Comunque – continua Bruno De Stefano – le disavventure giudiziarie e la sgradevole fama di “amico del boss” non lo disturbarono più di tanto. Uscito indenne dal processo alla NCO, assistette da libero cittadino alla progressiva demolizione del clan messo in piedi da Cutolo, decimato da arresti e condanne. Don Peppino tornò alla sua vita quotidiana di docente di Scienze e di sacerdote, e sebbene non abbia mai preso le distanze né rinnegato quelle imbarazzanti frequentazioni. La Chiesa nei suoi confronti non adottò alcun provvedimento. Rimase a Somma Vesuviana e non ritenne di aver fatto nulla di male per infliggersi un esilio volontario. La decisione di restare, però, si rivelò però un errore fatale. La guerra di camorra non era ancora finita. Tra la NCO e la Nuova Famiglia c’era ancora qualche conto da regolare: la lista di persone da eliminare era lunga. E in quell’elenco ci fu pure il prete amico di Cutolo.
Ignorato dai media e dimenticato dalla Chiesa, Don Peppino Romano non ha mai avuto giustizia. Killer e mandanti – conclude Bruno De Stefano – non sono mai stati arrestati e stranamente nessun collaboratore di giustizia ha mai saputo confermare chi lo abbia ammazzato.