Ottajano, 1853: un parroco portò via anche i mobili dalla sagrestia della Chiesa di San Lorenzo

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Gli Archivi ci ricordano che ancora nella seconda metà dell’’800 molti indossavano l’abito talare sollecitati non dalla vocazione, ma da un sistema sociale che considerava sacerdozio e monachesimo “professioni” riservate ai figli cadetti dei “galantuomini”. Era dunque fatale che sacerdoti, monaci e suore cedessero spesso a tentazioni di ogni tipo. I documenti relativi all’episodio di cui qui si parla ci permettono di ricordare un abile ebanista ottajanese, Sante Scudero.

Le fonti ci dicono che il peccato in cui più frequentemente “scivolavano” questi ecclesiastici privi di vocazione era il peccato sessuale. Ce lo conferma anche Gaetana Mazza, che ha pubblicato recentemente un preziosissimo saggio sui “Mores mulierum”, i “costumi delle donne” nel territorio di Sarno: di quest’opera parleremo prossimamente. Nel 1850 erano due i parroci ottajanesi che lettere anonime, ma ricche di indicazioni precise e oggi diremmo “circostanziate”, accusavano di intrattenere relazioni illecite con la moglie del “tavernaro” che teneva bottega poco lontano dalla chiesa di San Francesco. Tra l’altro, conventi, parrocchie e congreghe amministravano, in una libertà quasi totale, patrimoni ancora considerevoli, che consentivano ad alcuni priori di praticare l’usura con i soldi delle congreghe.

Nel 1809 la commissione incaricata di chiudere i tre conventi di Ottajano trovò nel Convento dei Serviti annesso alla chiesa di San Lorenzo una situazione tanto disastrosa che il sindaco Michele Giordano si fece sostituire, negli incontri con i commissari, dall’astuto decurione Gioacchino Bifulco. Anche se “distratti” dai modi e dai regali del Bifulco, i commissari notarono che il patrimonio dei beni immobili era quasi interamente “scivolato” nelle mani di proprietari ottajanesi a un prezzo di molto inferiore al valore dei fondi e delle botteghe. Alle “Piscinelle” e alla “Maveta” erano rimasti solo frammenti delle vaste masserie di proprietà del Convento e poco chiari erano i contratti di affitto stipulati per “bassi e cellari” con il barbiere Tommaso Annunziata, con lo “scarparo” Luigi Catapano, con il “tavernaro” Pasquale Ragosta, e per 11 moggia di oliveti a Santa Croce, con la famiglia Pisanti. I contratti di vendita e di affitto avevano comunque contribuito a mettere insieme un patrimonio di centinaia di ducati, ma nelle tasche di chi fosse scivolato il danaro non si seppe mai.

Nel novembre del 1853 il parroco della Chiesa di San Lorenzo, don Filippo di Caivano – i documenti non ci indicano il cognome – ritornò nel paese natio e portò con sé un ricco corredo di pianete impreziosite dalle ricamatrici ottajanesi già note in tutto il territorio, e con le pianete almeno quattro calici d’argento e “Vangeli” con decorazioni d’oro e d’argento. Don Filippo portò via, su due carri, anche i mobili della sagrestia, che il “mastro” ottajanese Sante Scudero aveva fabbricato con radica di ulivo e decorato con lesene e cornici di “legno di cerro”. Egli aveva imparato il mestiere nella bottega napoletana dei Fucito: una bottega famosa, fondata nel ‘700 dall’ebanista Agostino Fucito che mostrò la sua arte nella Farmacia degli Incurabili. Alcuni decurioni ottajanesi vennero inviati a Caivano, a interrogare il parroco: ma don Filippo dichiarò – suppongo, ad alta voce – che non sapeva nulla del tesoro scomparso e che ad accusarlo erano noti “bestemmiatori”.

Il suo successore, don Alfonso Pisanti, comunicò alle autorità cittadine che risultava intatto il patrimonio dei quadri, delle sculture, delle reliquie di San Luigi e di San Lorenzo e del prezioso corredo – vesti, corona e spade d’argento – della statua dell’Addolorata (immagine in appendice). E l’inchiesta si fermò qui. Forse gli amministratori avrebbero dovuto mandare a Caivano Vincenzo Perillo, noto in tutto il territorio come “uomo di rispetto”: egli, “caffettiere e speziale manuale”, tra San Lorenzo e piazza Taverna, gestiva due “botteghe del caffè”, nelle quali si giocava anche a bigliardo, in assoluta tranquillità: perché così voleva il Perillo.