L’abbigliamento delle donne di Ottajano e di Somma nel pellegrinaggio a Madonna dell’Arco: le note di un cronista del “Poliorama” I momenti della giornata: l’arrivo dei Napoletani. L’abbigliamento degli uomini. I banchi dei venditori. Lo speziale ciarlatano che vende unguenti “miracolosi”. Lo spettacolo del ritorno a Napoli, un “rito”in tutto simile al ritorno dal santuario di Montevergine: le ragioni di questo rito secondo Enrico Cossovich. Una mia idea sull’etimologia di “’ncannaccata”, “ingioiellata”.
Il cronista del “Poliorama Pittoresco” racconta, nel 1845, alcune scene “colorate” della “iuta” alla Chiesa della Madonna dell’Arco, il 24 marzo, Lunedì di Pasqua. Le donne di Somma indossano le vesti di fine bambagia: azzurre e rosse le nubili, gialle e verdi le maritate; e le sopravvesti, fatte di cotone- le hanno comprate con i risparmi di un intero anno – si aprono sul davanti, per mettere in mostra i corpetti di panno colorato a strisce o i busti ricamati a fiori dorati. I capelli li hanno raccolti in reti di seta rossa, “fermati” da lunghe spille che finiscono in minuscole rose d’argento, mentre le donne meno giovani avvolgono le chiome in ruvidi panni di lino annodati sulla nuca. Le donne di Ottajano portano vesti e sopravvesti di cotone, prodotte dai numerosi telai “famigliari” e lavorate a “doppio panno” – che è una tecnica costosa e difficile – e tutte di colore azzurro: così potranno indossarle anche durante le festa di San Michele, “ a cui quel colore si adatta”. Le Ottajanesi hanno i capelli divisi in trecce, arrotolate all’indietro, ma in modo da non coprire i lunghi orecchini a catena, fatti d’argento, o “di osso, o anche di legno”. Le donne di Nola si distinguono per la “pezza di lino o di canapa” che, tagliata a triangolo, copre la testa, ed è, all’indietro, divisa in tre o quattro strisce stese sulle chiome: anche loro portano all’orecchio lunghi pendagli e ai polsi vistosi bracciali. Tutte le donne sono “’ncannaccate”, ingioiellate (il termine napoletano, che tutti fanno venire dall’arabo, a me pare che abbia qualcosa in comune con il greco “kanakè”, “ stridio di metalli”).
Gli uomini della provincia portano gli abiti e i cappelli adatti a indicare il loro rango sociale: il cappello a forma di cono tronco dei “calessieri”, “la berretta” a cuffia degli artigiani, la “chianetta” a tesa larga “di paglia intrecciata” dei mercanti, la giacca di sarica, un tessuto di lana grezza, dei sensali, che spesso fanno anche un altro mestiere, quello della camorra, e sono devoti, nella stessa misura, alla Madonna del Carmine e alla Madonna dell’Arco. Sotto la “sciascina” floscia che copre la testa dei “proprietari” i capelli sono rasi fino alla nuca, ma il collo è coperto dalla zazzera. Gli uomini della provincia sono tutti armati di “sferra lunga e corta”, anche perché sono partiti di notte e hanno percorso strade che sono pericolose anche di giorno. Nella tarda mattinata, sui carri, tra il crepitare delle nacchere e dei tamburelli, arrivano i Napoletani: le donne indossano mantelle di seta nera e “scialli” di lino doppio, i pescatori ostentano la “berretta rossa” e gli artigiani si pavoneggiano con il “tubo”, il cappello lungo sormontato da due o da tre piume. Nell’ampia piazza sono stati montati, già durante la notte, i “padiglioni” dei mercanti, che vendono di tutto, stampe della Madonna, copie delle tavolette votive, “rosari” con i grani di corallo, fazzoletti, piatti e vassoi, pentole, cucchiai di legno, dolci, “’nzerte” di castagne e di nocciole, “mele di Somma”, le annurche. In un angolo della piazza, il più lontano dalla Chiesa, c’è il carro del “ mmierecone”, il santone ciarlatano che vende pomate, creme, unguenti e cere, “tutti miracolosi”, egli grida, tra gli squilli della sua tromba, “ anche contro i morsi delle vipere e di altri animali velenosi”, quelli, che provocano il tarantismo: e tutti sanno che tra i carismi della Vergine dell’Arco c’è anche il potere di guarire i tarantolati. All’altro capo della piazza i “maestri”, eternati dal quadro di Gaetano Gigante, raccontano i prodigi della Madonna, e sui cartelloni ne indicano le scene, disegnate dagli stessi artisti delle tavolette votive.
La sera c’è la festa del ritorno. Quelli della provincia ritornano nei loro paesi, dopo aver fatto un devoto pellegrinaggio attraverso le “cantine” che “mettono frasca” lungo le strade, e invitano all’assaggio dei vini, del salame, della sontuosa caponata. Ma i Napoletani mettono in scena lo stesso spettacolo di cui sono attori quando tornano dal santuario di Montevergine di Mercogliano, la fantastica “ arretenata”. La litografia Gatti- Dura che correda l’articolo e i quadri di Gaetano Gigante e di Pasquale Mattei descrivono fedelmente lo scoppiettante “teatro” di carri, di tarantelle, di cembali e di putipù, di aste con l’immagine della Madonna, di cappelli ornati con penne di gallo e di pavone, e di lunghe corone di salami, di castagne e di “antrite”, le nocciole tostate. Al Ponte della Maddalena il corteo è atteso da una folla di curiosi che vogliono “elettrizzarsi” con “l’inno baccanale dei “ canti a figliola” “ che si “levano fino alle stelle”: “tutto annunzia che la festa è terminata, che l’oggi è finito e si approssima il domani… E, domani, Iddio provvede”. Con questa nota di filosofia fatalistica Enrico Cossovich spiegava le ragioni della festa del ritorno: i Napoletani tenterebbero di conservare fino all’ultimo momento, e di trasmettere a tutta la città, l’energia che essi hanno assorbito, nel corpo e nel cuore, dalla “montagna di fuoco”, da un “luogo”, il Somma-Vesuvio, in cui la Terra Madre assunse, nell’antichità, l’aspetto di una dea pagana e ora affida il suo mito all’immagine della Madonna dell’Arco.