Un “piatto” vesuviano, che faceva parte, a Ottaviano, dei riti della festa di San Michele. Perché una signora ottavianese, “’e copp’’a Toppa”, chiamava “’nziriusi” i piselli di questo “piatto”. Il confronto con una poesia di Di Giacomo, in cui l’armonia concorde dei versi viene rotta dai giochi fonosimbolici di un verso “’nziriuso”, che però non offende, anzi rinforza la “musica” degli altri versi. Come fanno i piselli nella sostanza cremosa del piatto.
Ingredienti: gr. 400 di piselli freschi; gr. 350 di tubetti; 1 cipolla bianca ; una fetta di pancetta affumicata; olio; menta; sale e pepe. La cipolla sminuzzata ponetela in una casseruola con tre cucchiai di olio extravergine. Lasciate che il tutto soffrigga per pochi momenti, aggiungete la pancetta, lasciate che di nuovo il tutto soffrigga per un minuto, poi versate i piselli, aggiungete una foglia di menta, girate, rosolate a fuoco medio per due minuti, coprite continuamente con acqua calda i piselli, e quando il tutto incomincia a bollire, calate i tubetti, girate su fuoco moderato per sei minuti, avendo cura di mescolare lentamente, per evitare che i piselli si rompano e si sciolgano. Fate in modo che la pasta assorba tutto il liquido, perché la caratteristica prima di questo piatto è la consistenza cremosa. Biagio aggiunge a fine cottura sale e pepe, ma respinge categoricamente, in questa pasta e piselli “alla napoletana”, l’uso di qualsiasi tipo di formaggio, perché, a parer suo, ne risulterebbe danneggiato il sapore dei piselli: che invece viene esaltato dalla pancetta ( ma non dal prosciutto).
Fino alla metà del ‘900 l’agricoltura vesuviana dedicò grande cura alla coltivazione dei piselli, in particolare dei piselli nani, gli zimperinielli, dei “rampicanti precoci di Napoli”, e del “verde di Trecase, che raggiunge altezze superiori ai due metri ed offre uno spettacolo meraviglioso con i suoi frutti pendenti a cascata” (S. Sannino). “Pasta e piselli” era un “piatto” delle comunità: a Ottaviano l’ 8 maggio, il giorno sacro a San Michele, nei tempi in cui le tradizioni avevano ancora significato e valore, ogni famiglia consumava quel “piatto”, e “pasta e piselli” era il pranzo dei “lavoratori a giornata” che curavano le vigne e i frutteti: è probabile che i “piselli” riuscissero a dare forza e sapore anche all’ “acquata” che di solito accompagnava quel “pranzo”. I pastori avellinesi che portavano le loro greggi a svernare negli stalli lungo gli alvei di Madonna dell’Arco fecero conoscere la squisitezza dell’arrosto di agnello con contorno di piselli, e questo “piatto” diede fama e lauti guadagni alle osterie e alle locande di Santa Anastasia e dei Comuni confinanti. Una “scena” di molti anni fa: “Zi’ Speranza” che, per l’età e per la saggezza, era Maestra di vita e di cucina per le famiglie che abitavano dietro il Municipio, “’ncoppa ‘a Toppa”, ricordava alle sue allieve che, se facevano “squagliare” i piselli, era meglio gettare via tutto, perché avrebbero portato in tavola non la “pasta e piselli”, ma “polvere di piselli”, lo sciagurato pastrocchio che gli Americani imposero ai Napoletani nei giorni della loro presenza in città, dopo il crollo del fascismo e la ritirata dei Tedeschi. Diceva “Zi’ Speranza” che i piselli sono “’nziriusi”, splendido aggettivo napoletano dall’oscura etimologia e dal significato complesso, perché può intendersi come “capriccioso, cocciuto”, ma anche come “orgoglioso”. I piselli vogliono conservare intatta l’identità del loro sapore – e su questo sapore la forma sferica imprime un segno di perfezione, di compiutezza – fino all’incontro con il palato: insomma, non accettano di confondersi con la uniformità cremosa del “piatto”, aspirano a distinguersi, a farsi notare da chi sta mangiando, e per questo misto di orgoglio e di vanità sono “’nziriusi”. Mi ricordano certe poesie di Di Giacomo, nelle quali la musica concorde e cremosa dei versi viene rotta all’improvviso da parole “’nziriose” che “suonano” una musica propria. I versi della prima strofa di “Doppo l’anno” hanno lo stesso impianto melodico , alla cui coerenza contribuiscono il ritmo pacato dei versi e il fonosimbolismo delicato delle parole: “ ‘O nniro ‘e ll’uocchie mie, bella, vuie site, / ma site amara e nun ve n’addunate, / e specialmente quanno me vedite / tanno me pare ca v’amareggiate…”. Ma il secondo verso della seconda strofa inverte ritmo e gioco fonetico: “Dint’o core mio……” “ io ve purtava scritta e siggillata”: la forza di questo “sigillata” non “offende” l’armonia delicata degli altri versi, al contrario le dà un senso nuovo e un nuovo vigore. Come i piselli al piatto.
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