Se l’ostentazione di un singolo può apparire vanagloria, per un’istituzione tutto può diventare propaganda.
L’apostolo Paolo così scrive nella lettera indirizzata ai cristiani di Roma. Il sostantivo carità che viene utilizzato non può essere confuso con il gesto dell’elemosina, ma si riveste di un’accezione più grande. Nell’originale testo greco, Paolo usa il termine agape per sottolineare un amore totalmente oblativo perché la vita del credente sia un riflesso, seppur molto pallido, dell’esistenza di Gesù di Nazareth.
L’amore non può essere confuso solo con un sentimento che nasce dal cuore, una mozione dell’anima che trasfigura e rende migliori i nostri giorni, ma deve essere identificato soprattutto con alcuni segni, gesti che concretizzano l’amore che portiamo nel cuore. Se decido di donarmi totalmente ad un’altra persona, non mi fermo al semplice proposito, ma mi impegno per realizzare tale proposito, se decido di spendere il mio tempo per gli altri, lo faccio con tutto il cuore.
Il problema sorge quando i miei gesti non corrispondono alla reale intenzione del cuore. L’ipocrisia, infatti, è una maschera che ciascuno porta addosso; l’ipocrita è letteralmente un attore che recita un copione, entra in un ruolo che non lo rispecchia per nulla.
Oggi noi viviamo nel tempo dell’immagine, dell’apparenza. I social hanno amplificato la nostra visibilità e questi nuovi luoghi di aggregazione sono diventati lo specchio reale di quello che stiamo diventando. Sui social noi condividiamo foto, frasi ad effetto e, molte volte, ostentiamo il bene che facciamo.
L’ipocrisia della carità è ormai sempre più presente nel nostro stile di vita ed ogni nostra azione viene pubblicizzata o, addirittura, di un gesto viene distorta completamente la verità. Anche le istituzioni civili e religiose molte volte sono complici di questo stile dell’apparenza, proprio perché si cerca di rincorrere lo stile e la moda del momento.
Se l’ostentazione di un singolo può apparire vanagloria, per un’istituzione tutto può diventare propaganda.
La carità, il bene, non può solamente soddisfare un bisogno, per cui la risoluzione del problema porta come conseguenza l’ostentazione del bene fatto, ma deve diventare uno stile. Le istituzioni dovrebbero essere le prime testimoni di una carità silenziosa, fattiva, capace di seminare la speranza attraverso piccoli semi.
Oggi si tende al protagonismo del bene, come prolungamento egotico delle proprie manie di palcoscenico; basta un selfie postato sui social per soddisfare la nostra sete di successo, basta un like in più per sentirsi costruttori della carità, ma in realtà così viene demolito il concetto stesso del bene.
La carità è un processo educativo, il vero operaio della carità non è colui che ha la prerogativa del bene, ma diventa animatore di un processo effusivo che coinvolga la maggior parte delle persone, perché si possa essere comunità attenta e solidale.
“Non sappia la tua destra ciò che fa la sinistra” è il monito di Gesù, un’esortazione che è sempre nuova, anzi, in questo tempo quanto mai appropriata.
Non essere ipocriti nella carità deve tornare ad essere lo stile autentico della nostra società, delle nostre istituzioni, dei nostri punti di riferimento, perché ci si ri-educhi al concetto stesso del bene e il “fare” non diventi motivo di applausi, ma sia occasione per dare un senso pieno e autentico alla vita. Solo imparando a fare il bene possiamo dire che la nostra esistenza ha un valore, una meta da raggiungere, un obiettivo per cui vale la pena continuare a vivere.
(fonte foto: rete internet)