La pelle color della neve, a qualsiasi costo: era il fondamento della bellezza per le matrone romane. Con qualche eccezione

0
1240

Le trasformazioni dei canoni della bellezza femminile nell’antica Roma. Felicione, il “lupinarius” di Pompei. I costi eccessivi di profumi e di pomate, importate dall’Oriente e i limiti (si fa per dire) imposti da Diocleziano. Ovidio indica il candore della pelle come principio primo della bellezza femminile, ma talvolta si contraddice. Le posizioni di Properzio e di Tibullo. L’originalità di Catullo, e i comportamenti della sua Lesbia, la Clodia violentemente offesa da Cicerone nell’orazione “Pro Caelio”.

 

Fu Ovidio a consacrare la pelle bianca come l’elemento primo e essenziale della bellezza femminile: la pelle bianca seduceva gli uomini, e dunque le signore erano pronte a usar qualsiasi mezzo per far sì che la loro epidermide fosse “candida” come la neve. E i mezzi erano, in verità, molto particolari: impiastri a base di miele “nel quale possibilmente erano morte delle api” (Eva Cantarella, CdS, 11 maggio 2017), un pesto delle radici di melone, sterco di coccodrillo, suggerito dai “maestri di bellezza” egiziani, e perfino una mistura di “fiele di asino e di toro”. Le matrone più ricche potevano procurarsi la pomata reclamizzata da Ovidio, fatta con sterco di uccelli marini.Le signore di provincia dovevano accontentarsi di unguenti fatti con grani di fava e con lupini: i profumieri di Pompei compravano i lupini e legumi necessari alla loro arte dal “lupinarius” Felicione, che teneva bottega presso la lavanderia di Vesonio. Scrive il Faure che Pompei, Ercolano e Capua erano i centri di produzione di profumi a buon mercato, mentre le sostanze odorose più rare e più costose venivano dalla Siria, dall’Egitto, dalla Giudea e dalla Mesopotamia: il mercato valeva, dice Plinio, decine di milioni di sesterzi. Il balsamo della Giudea costava 2 denari al grammo: 10 grammi costavano dunque 20 denari, il salario massimo giornaliero di un bracciante agricolo nel sec. III d.C. I prezzi erano diventati così esagerati che l’imperatore Diocleziano fu costretto a fissare dei limiti invalicabili: 2000 denari per una libbra di zafferano arabo, 200 denari per una libbra di mirra e di nardo, 80 denari per una libbra di olio di rosa di alta qualità: una libbra corrispondeva a gr. 327, e dunque si capisce perché Rostovzev sostiene che proprio nella seconda metà del sec.III d. C. tra i ricchi e i poveri si spalancò un baratro incolmabile.

Anche Ovidio cadde in qualche contraddizione. Infatti, negli “Amores” egli si fa paladino del colore naturale dei capelli e rimprovera Corinna per le torture che ella infligge, con le tinture e con il ferro rovente, alla sua chioma, per schiarirla e per arricciarla: una chioma che era così bella, allo stato naturale, da suscitare l’invidia perfino di Apollo e di Bacco. Anche Properzio si contraddisse. Egli diceva di ammirare nella sua Cinzia la bellezza naturale e di disprezzare ornamenti e trattamenti cosmetici: e quando Cinzia decise di tingersi i capelli, egli si irritò e scrisse che era da folli imitare certe pratiche in uso presso i barbari, in particolare presso le donne dei Belgi e dei Britanni. Le sole novità rispetto al passato che egli ammetteva nel suo ideale di bellezza femminile erano l’eleganza del portamento, la grazia nella danza, la cultura letteraria e musicale: sono, come si vede, pregi che vanno oltre il livello della così detta bellezza naturale e fanno parte di quel “cultus”, di quella cultura della bellezza “preparata”, che Properzio diceva di non ammirare, e nella quale rientrava anche l’attenzione delle donne per pomate e tinture. E quando finì la storia d’amore con Cinzia, Properzio si vendicò, svelando in versi dettati dalla cattiveria che il “candor” della donna, che lui nei giorni dell’amore aveva cantato come puro e naturale, era in realtà il frutto di creme e di unguenti. I poeti della prima età imperiale si trovarono al centro del complicato conflitto tra il nuovo ruolo e la nuova “figura” della donna, da una parte, e dall’altra i “mores maiorum”, i costumi dei padri che ancora resistevano: il conflitto si svolgeva, ovviamente, all’interno della classe dei potenti. Properzio e Tibullo subirono l’influenza di Catullo, ma non ne avevano il genio. In un famoso carme Catullo aveva ammesso che la diva del momento, Quinzia, era “formosa, candida, longa, recta”, formosa, bianca come la neve, slanciata: ma questi pregi restavano separati e isolati, “singula”, non trovavano quel principio di unità che potesse trasformali in aspetti di una sola “forma”: la bellezza. E invece la sua Lesbia era bella, perché in lei “omnes veneres”, tutti i pregi, erano diventati una sola armonia. E Lesbia- Clodia non era “candida”, non aveva la pelle bianca, e non aveva paura dei raggi del sole: Cicerone, che non la sopportava perché lei lo aveva respinto, racconta nella “Pro Caelio” le dissolutezze di cui Clodia-Lesbia era protagonista nella villa di Baia, tra “orge, passioni libidinose, adulteri, gozzoviglie, canti, concerti e gite in barca”. E a Roma questa Musa il cui fascino era esaltato proprio dalla libertà e dalla sregolatezza aveva comprato una villa con giardino  in un punto del Tevere “dove tutti i giovani si recano a fare il bagno”: L’arte oratoria di Cicerone fece sì che il pubblico e i giudici del processo contro Celio “vedessero” Clodia mentre, nel suo giardino, esponeva il suo corpo ai raggi del sole e agli sguardi dei giovani nuotatori.