La macelleria di Ignazio a Somma Vesuviana: un “tempio” di sapienza creativa, di sapori e di profumi

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Figlio d’arte, Ignazio Romano sa coniugare innovazione e tradizione, perché è consapevole del fatto che la lavorazione delle carni ha una storia di tecniche, di profumi e di sapori che permette solo variazioni ben calcolate. Egli prende i suoi capi a Vastogirardi, famosa già nel primo Ottocento per l’allevamento del bestiame. 

Ignazio è figlio d’arte: suo padre, che teneva una macelleria a Rione Trieste, gli ha insegnato i segreti della selezione dei capi, della macellazione e della lavorazione delle carni. Ignazio poi ha lavorato presso altre botteghe, si è confrontato con altri maestri del mestiere, ha affinato le sue competenze e, soprattutto, è diventato consapevole di una verità essenziale: che avrebbe fatto quel lavoro, non solo per l’influenza dell’esempio paterno, ma anche perché quel mestiere gli piaceva, e alla sua storia avrebbe potuto dare anche lui un suo contributo di sapienza e di creatività, proprio in un momento in cui il mondo dell’alimentazione incominciava a configurarsi come un mondo d’arte. Ignazio ha aperto una sua macelleria, l’ha attrezzata con macchine di alta tecnologia, che tutelassero, nei termini dell’igiene e della sicurezza, l’alta qualità degli alimenti, ha poi creato, a Somma, nel Parco Primavera, un laboratorio all’avanguardia in cui le carni vengono trattate e conservate sempre e solo secondo i principi naturali e nel rispetto delle loro naturali qualità.

Del resto, Ignazio prende i suoi capi da Alessandro Maciocia, a Vastogirardi, in provincia di Isernia, e cioè in un luogo che già durante il regno dei Borbone era noto per l’allevamento del bestiame, soprattutto dei bovini, che disponevano di pascoli sontuosi e di acque cristalline. Ignazio è stato il primo a preparare hamburger agli spinaci, ai funghi, ai formaggi, alle erbe, e sui banchi della macelleria fanno bella mostra di sé salsicce fresche con sale, pepe e vino doc; pancetta arrotolata, salame al sale e al pepe, annoglia al sale e al peperoncino, capicollo al sale e al pepe, filetto di capicollo, zuppa forte di soffritto, salsicce secche, salamini a lenta stagionatura. Ignazio usa il sale di Cervia, in cui il livello dei cloruri amari viene armoniosamente temperato: è un sale netto, ma delicato, nel segno di quel sapore particolare, incisivo, ma rotondo e morbido, che caratterizza i salumi napoletani e che, a percepirlo, ricorda fatalmente i versi di Eduardo De Filippo :” ‘e sasicce attarallate/ quann’’e vvire arrusulate / sulo tanno ‘e ppuò luvà…ma l’’e ‘a pognere cu ll’aco/ ncopp’e sotto, fora e dinto/ ca si ‘o grasso resta ‘a rinto / ntorza ‘a pelle ‘e a fa schiattà…./ na menesta mmaretata/ cu ll’annoglia e ‘a pezzentella / c’a cappuccia ncappucciata / vrucculille e cucuzzielle…”.

Chi parla di cibo non riesce a resistere alla voluttà del catalogo: lo dimostrò, nel sec. XIII, l’anonimo autore del “Paese di Cuccagna”, che sbrigliò la sua immaginazione nell’elencare spigole, salmoni, aringhe, “di cui sono fatti i muri delle case”, e gli storioni che formano i tetti, e le spalle di maiale che circondano i campi di grano, e grasse oche che si rosolano da sole. Il catalogo dei cibi è immagine dell’abbondanza e sollecita la fantasia che ogni senso possiede: la sua manifestazione concreta è il banco della bottega. Ignazio conosce come pochi l’arte napoletana di prepararlo, di disporre i prodotti della sua arte secondo un ordine che è scala musicale di profumi e di colori. I profumi  conquistano  con eleganza: vanno dalle note fruttate alle vegetali, da quelle “animali” alle sensazioni speziate, in cui si percepiscono vari toni di pepe. E poi ci sono i profumi collegati per associazione: i salamini a lenta stagionatura evocano le note del pane abbrustolito, così come le variazioni cromatiche del colore “rosso”, delle ocre, dei colori di terra, che sapientemente si alternano  lungo il banco, trasformato in un vero e proprio palcoscenico, suggeriscono ai sensi inebriati la “memoria” olfattiva del vino rosso, della noce moscata, della vaniglia.

In una famosa pagina di Italo Calvino, Palomar entra, per far la spesa, in una “charcuterie” di Parigi e la sua immaginazione viene a tal punto sollecitata da questo Paese di Cuccagna che nelle fette di paté di selvaggina egli “vede” le corse e i voli degli uccelli della brughiera. Nella macelleria di Ignazio si squaderna un repertorio prolungato di sensazioni visive e olfattive, e il gusto si predispone per istinto all’imminente piacere: ma anche l’intelletto viene invitato a considerare il miracolo dell’arte e della fatica che sta dietro a quello spettacolo, e la finezza geniale di una sapienza che conserva nelle novità la bellezza dell’antico, che è attenta alle trasformazioni del gusto, ma ha il coraggio di ricordare a tutti noi che certi sapori sono un patrimonio per sempre, perché portano dentro di sé la storia del territorio. Di un territorio in cui la lavorazione delle carni fresche e di quelle “salate” raggiunse, dice un documento del 1864, i livelli dell’ “arte perfetta”.

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