Il Lutto nell’era Digitale e dell’IA: la presenza irrevocabile di un assente

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Dall’inizio della storia, l’uomo ha conosciuto la malattia, il dolore, l’infelicità e l’ineluttabile morte. “Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché bisogna morire” afferma Umberto Galimberti, descrivendo la natura tragica della vita umana. Tuttavia, nell’era della tecnica questa domanda di senso viene radicalmente rimossa e risolta nella ricerca della funzionalità ed efficienza. La tecnica in possesso del medico oggi è sempre maggiore e le procedure sempre più efficienti, si pensi all’uso sempre più esteso dell’Intelligenza Artificiale e degli Algoritmi (Generative AI for Healthcare) nel campo della diagnostica e nei prossimi anni della prognostica e del sistema delle decisioni, così come nelle terapie sempre più personalizzate e di precisione.

L’uomo moderno ha dovuto allargare la sua visuale sulla morte, visto che la modernità l’ha resa quasi inopportuna per un individuo che ormai insegue il mito dell’immortalità (Morin, 2002). Questo cambiamento è stato caratterizzato da una tendenza sistemica a escludere la morte dall’ambito pubblico e domestico, un processo sociologico analizzato in modo incisivo da Norbert Elias. Sicuramente la tecnologia ha demolito il tabù della morte. L’ecosistema online attuale e l’IA, ha però introdotto una nuova “presenza invasiva” della morte, inoltre avvicina chi sta vivendo la stessa sofferenza: «L’interattività dei social crea aggregazione, intorno al memorial si forma una comunità che condivide lo stesso dolore. Questo scambio è prezioso soprattutto oggi, visto che si sono quasi persi i rituali per elaborare il lutto nella società; un tempo c’erano le veglie e i rosari, adesso ci sono le commemorazioni online» sostiene Ziccardi nel suo libro “Il libro digitale dei morti”. Il sorgere di questa nuova realtà ha portato alla nascita di campi di studio specialistici, come la Tanatologia Digitale o Digital Def, dedicati a comprendere come le tecnologie stiano modificando la nostra interazione con la morte, il lutto, la memoria e l’immortalità. Affrontare il lutto nell’era digitale significa riconoscere che la perdita si manifesta in un contesto di presenza paradossale e persistente. Il principale impatto psicologico e psichiatrico di questa nuova realtà è l’aumento della vulnerabilità allo sviluppo del Disturbo da Lutto Prolungato (PGD), causato in parte dalla difficoltà nel raggiungere l’accettazione e dall’impedimento strutturale all’oscillazione funzionale prevista dal Modello del Processo Duale (DPM) di Margaret Stroebe e Henk Schut: orientamento verso la perdita (Loss-Oriented), tutte le emozioni e azioni direttamente legate al dolore, al ricordo della persona deceduta, alla tristezza, al bisogno di rielaborazione. Orientamento verso il ripristino (Restoration-Oriented): le azioni e i pensieri rivolti alla ricostruzione della propria vita, alla gestione delle nuove responsabilità, alla ricerca di nuovi significati.

La Digital Death è definita dal cortocircuito esistenziale generato dalla costante veicolazione della presenza nel web, in netto contrasto con l’assenza fisica e l’irrevocabilità che caratterizzano la morte biologica. Il WEB, un luogo di perenne attualità e simultaneità, crea un singolare paradosso: l’interruzione del flusso vitale viene bypassata dalla permanenza della traccia elettronica. In questo contesto, lo status del defunto diventa, per citare Thomas Macho, “l’incarnazione della presenza di un assente“. Questo fenomeno si manifesta in modo acuto nella gestione dei profili social. I profili restano attivi, ma “congelati”, ovvero privi di continuità nelle pubblicazioni, ma permanentemente accessibili. Questa situazione genera complesse problematiche di natura psicologica per i familiari. Da un lato, il profilo del defunto funge da “rifugio” che raccoglie un numero di ricordi e contenuti senza precedenti. Dall’altro lato, i parenti in lutto sperimentano questa presenza come un “ricatto costante” poiché ogni connessione e accesso al profilo evoca la sensazione che il defunto sia ancora “vivo”. L’irrisolto psicologico indotto da questo paradosso digitale si pone come un ostacolo significativo all’elaborazione sana del lutto. I modelli classici suggeriscono che la risoluzione del lutto implichi una graduale “disinvestitura” affettiva dall’oggetto perduto. La presenza continua digitale, agendo come un ricatto emotivo costante, sabota questo meccanismo fisiologico. La spinta verso l’immortalità digitale rappresenta il tentativo più estremo di aggirare la mortalità biologica, dissociando l’identità elettronica dall’esistenza fisica. Invenzioni come Eterni.me, Eter9 e Lifenaut mirano a creare cloni o “spettri digitali” capaci di pensare e comunicare anche in assenza della persona fisica.

La necessità umana di ritualizzare la perdita si è tradotta in spazi digitali specifici. I rituali digitali, come i cimiteri virtuali (il primo fu creato da Michael Stanley Kibbee 24 anni fa), sono luoghi “discorsivi” che cercano di ridefinire il tempo e lo spazio del lutto. Su scala più ampia, le piattaforme social media fungono de facto da spazi di memoria collettiva. Facebook è già considerato “il più grande cimitero del mondo”, con stime che prevedono che il numero di utenti deceduti supererà quello degli utenti vivi entro il 2098, data la decisione di non eliminare automaticamente gli account.

La clinica psichiatrica ha oscillato nella definizione del lutto come disturbo. Già nel 1915, Freud aveva avvicinato il lutto non elaborato alla melanconia. Successivamente, la sofferenza persistente è stata concettualizzata come un “blocco evolutivo” o “lutto congelato,” in cui l’esistenza del soggetto viene paralizzata dal momento doloroso della perdita. Prima dell’attuale classificazione, i modelli clinici riconoscevano varie forme patologiche, tra cui il Lutto Cronico (incapacità di riprendere la vita quotidiana ad anni di distanza dalla scomparsa, spesso accompagnato da disattenzione per la propria salute fisica e abuso di sostanze), il Lutto Ritardato (risposte eccessive a eventi recenti che attivano temi legati a una morte lontana), e il Lutto Inibito (caratterizzato da preoccupazioni croniche e pensieri di morte). Il riconoscimento internazionale del Disturbo da Lutto Prolungato (Prolonged Grief Disorder – PGD) rappresenta un passo cruciale nella tassonomia clinica, distinguendo il dolore persistente e invalidante (la malattia) dalla tristezza intensa ma funzionale (il lutto normale). Questa classificazione permette ai clinici di orientarsi verso protocolli di intervento specifici. Il PGD è caratterizzato da un dolore persistente e intenso per la perdita. Affinché lo stato depressivo e l’impoverimento della vitalità siano considerati disfunzionali e invalidanti, e per differenziarlo dal lutto normale, sono stati stabiliti criteri temporali precisi. Nel DSM-5-TR (2022), il disturbo è diagnosticabile se persiste per almeno 12 mesi negli adulti (6 mesi in bambini/adolescenti), con una sintomatologia focalizzata sul desiderio intenso (longing), la preoccupazione per il defunto e un dolore emotivo persistente. Analogamente, l’ICD-11 (2018) include il Grief Disorder (GD), richiedendo una durata minima di 6 mesi per preoccupazione intensa o angoscia che persiste in modo disfunzionale. I dati epidemiologici indicano che il PGD non è un’evenienza rara. In ampi campioni, la prevalenza di casi probabili è stata stimata intorno al 5.4% utilizzando i criteri ICD-11.

Affrontare il lutto nell’era digitale, cosa fare? Nel trattamento del Disturbo da Lutto Prolungato (PGD), la psicoterapia trova la sua ragion d’essere nella supposizione che alcune sofferenze umane possano essere vinte o ridotte. Un aspetto cruciale del superamento del lutto è il processo di Meaning Making, ovvero la ricerca di nuovi significati e obiettivi di vita per ridefinire il futuro. La terapia mira a trasformare le rappresentazioni avverse della perdita (ad esempio, una malattia minacciosa) in scene di vita affettivamente positive (ad esempio, vedersi come una persona più forte grazie all’esperienza passata). La Psicoterapia Multimediale, sviluppata dal Professor Domenico Arturo Nesci, rappresenta un approccio innovativo che riconosce la centralità dei media digitali nella memoria. Questa tecnica utilizza attivamente suoni, video e immagini del defunto per aiutare il paziente a elaborare il distacco e superare i “blocchi evolutivi” o il “lutto congelato”. Riconoscendo che i ricordi sono ormai indissolubilmente legati ai media digitali, la psicoterapia multimediale trasforma il mezzo di potenziale riattivazione traumatica (il ricordo digitale) in uno strumento di guarigione. Offre un rituale di saluto psicodinamico e tecnologicamente aggiornato, fornendo al paziente un contesto controllato per affrontare l’onnipresenza del ricordo e facilitando il “far ripartire la vita”. Tecniche di Riconnessione Simbolica (IADC). La tecnica IADC (Induced After-Death Communication) è un’opzione che offre ai dolenti la possibilità di affrontare la perdita in modo profondo e simbolico, facilitando una comunicazione simbolica indotta con il defunto. Nel contesto della Digital Death, dove la presenza del defunto è iper-reale (il profilo congelato), l’IADC è particolarmente rilevante. Se la traccia digitale impone un dialogo esterno e potenzialmente patologico (il “ricatto costante”), l’IADC aiuta il paziente a internalizzare il dialogo e a spostare l’interazione da un piano esterno (il profilo) a un piano simbolico interno (il significato), permettendo così l’integrazione e la risoluzione della perdita.

Famaci, si o no? L’uso di farmaci nel lutto prolungato è un argomento complesso e va sempre valutato da un medico specialista (psichiatra): le evidenze indicano che gli antidepressivi non sono considerati il trattamento primario per il lutto prolungato in sé. Tuttavia, possono essere prescritti se il lutto prolungato si accompagna a un Disturbo Depressivo Maggiore (che può avere sintomi sovrapponibili ma con focus diverso) o ad altri disturbi d’ansia. In questi casi, lo specialista valuterà l’uso di farmaci come gli SSRI (Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina) o altri tipi di antidepressivi. Ansiolitici: a volte vengono usati per brevi periodi per gestire sintomi acuti di ansia o insonnia, ma c’è il rischio di dipendenza e non trattano la causa del disturbo. Il loro uso dovrebbe essere limitato nel tempo. L’emergere di tecnologie basate sull’intelligenza artificiale per creare avatar o griefbots pone seri dilemmi etici. L’utilizzo di strumenti che mantengono l’identità del defunto in una forma rigida e “mummificata” comporta il rischio deontologico di favorire una dipendenza patologica e ostacolare l’accettazione della perdita. La discussione etica deve concentrarsi sulla dignità della memoria postuma e sul diritto dei familiari a elaborare l’assenza in modo sano. Il rischio è che l’industria tecnologica promuova una forma di “immortalità” statica e disfunzionale, compromettendo il processo di adattamento e re-integrazione del/dei dolente/i.

Dott. Giuseppe Auriemma

Medico Psichiatra Psicoterapeuta

Psico-Oncologo II livello, Coordinatore SIPO Campania