In questo tempo di contagio per un virus che evoca pestilenze d’altri tempi, torna estremamente interessante lo studio dello storico dell’arte Vincenzo De Luca, già edito in occasione della presentazione natalizia nella Chiesa dell’Annunziata di Marigliano di una copia della tela di Luca Giordano, San Sebastiano e le pie donne, dallo stesso studioso recuperata e analizzata. L’originale dell’opera, prestata pro tempore al Museo Civico Gaetano Filangieri di Napoli e ora in collezione privata, intorno al quale De Luca ha anche realizzato un documentario interpretato da Francesco Paolantoni, parla indirettamente anche della peste, che intorno alla metà del Seicento attanagliava Napoli, decimandone la popolazione. Sebastiano e Rocco si ergono a baluardo religioso contro il pericolo di ogni pestilenza.
Promotore di quel progetto, inserito all’interno delle attività denominate “Mari-gliano riaccende le luci” fu l’Associazione dei commerciati M.I.A. Marigliano. Oggi, grazie alla sensibilità del parroco della Collegiata, don Lino D’Onofrio, la copia del quadro nelle sue dimensioni originali è esposta nella sagrestia della Chiesa Santa Maria delle Grazie. Nei prossimi giorni, sulla pagina Facebook “Marigliano Mia”, verrà pubblicato il video di Francesco Paolantoni con l’analisi del dipinto di San Sebastiano di Luca Giordano, grazie alla cortesia del Museo Filangieri che ne ha autorizzato la pubblicazione online in questo particolare momento.
Luca Giordano – San Sebastiano e le pie donne (olio su tela, 217,5 x 166 cm, 1653 circa – collezione privata)
Relazione del prof. Vincenzo De Luca, docente di Storia dell’Arte
Se si volesse raccontare la storia del Cristianesimo attraverso la vita dei martiri, la più calzante sarebbe certamente quella di san Sebastiano. Il nome viene dal greco sebastòs che vuol dire “il venerabile”, sicuramente adatto per il santo più rappresentato nella storia dell’arte. Il simbolo della passione di Sebastiano sono le frecce, ma il martire non muore in verità per mano degli arcieri. Sono piuttosto, le frecce, il riferimento della sua immortalità, da uomo prima e poi da santo. La sua storia è raccontata nella Passio Sancti Sebastiani di Arnobio il Giovane (nel V secolo) e nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (nel XIII secolo): vissuto nel III secolo, era capitano delle guardie dell’imperatore Diocleziano e fu difensore dei cristiani, compiendo anche miracoli, come ridare la voce a una donna muta da anni. Scoperto dall’imperatore a difendere il nuovo credo, fu condannato a morte, denudato, legato a un palo sul colle Palatino e appunto trafitto, per mano di soldati suoi commilitoni, da tante frecce da farlo sembrare un riccio con gli aculei eretti, ut quasi ericius esset hirsutus ictibus sagittarum.
La vicenda si colora di toni leggendari perché basata su notizie storicamente infondate, in quanto l’imperatore Diocleziano risulta che non sia mai stato a Roma. Tradizione vuole che una pia donna di nome Irene, volendo recuperare il corpo per garantirne una degna sepoltura, si sia accorta che il giovane trafitto dalle frecce non era morto. Curato da Irene (anche per questo gesto poi santificata) e guarito, riprese testardamente la sua attività a difesa dei cristiani. L’imperatore Diocleziano lo condannò a morte di nuovo, questa volta mediante fustigazione, facendo gettare il corpo morto nella Cloaca Maxima. Era l’anno 304.
Sebastiano e Irene sembrano incarnare due alter ego di Cristo e di Maria, lui che persevera nella missione fino al patimento e alla morte, lei figura defilata ma necessaria che soccorre e salva. Sebastiano rimanda all’essenza della Chiesa, a un’istituzione che si basa su un esempio, Cristo, e su un’ideale, il bene, Irene è invece la Chiesa tra gli uomini, che si fa misericordia corporale. Sebastiano evoca Cristo alla colonna e, come Cristo, appare nudo. A lui e a Cristo è concesso di essere coperti solamente con il perizoma. Rara è in pittura la rappresentazione del secondo supplizio di san Sebastiano, quando viene fustigato e muore: un capolavoro che racconta la morte di Sebastiano è dipinto da Paolo Veronese nella chiesa dedicata al santo a Venezia, dove il pittore realizzò anche altri episodi della vita di Sebastiano. L’immagine più usuale è quella del santo legato e trafitto dalle frecce. Ma l’accostamento più pregnante, tra il Quattrocento e il Seicento, è stato tra il santo e la peste. Se le frecce scagliate rappresentano il flagello di dio, cioè la peste, contro l’umanità peccatrice, Sebastiano che sopravvive incarna la fine dell’epidemia e l’umanità redenta.
Sul tema della peste, legato a san Sebastiano spesso nell’arte è accostata la figura di san Rocco, rappresentato vestito ma con una gamba scoperta, dove presenta una piaga causata dall’epidemia. Ha un bastone, la bisaccia, il mantello, i sandali e si accompagna con un cane. Mentre san Rocco simboleggia l’umanità misericordiosa colpita dalla peste mentre porta conforto ai bisognosi, san Sebastiano la stessa umanità vigorosa nel corpo e vittoriosa sul male. Non poteva mancare in pittura la figura di Irene. Incarna l’anello mancante della storia; il maleficio della freccia (il flagello di Dio) scagliata sull’umanità che soffre (san Sebastiano) è annullato dall’umanità che al-levia l’altrui dolore (Irene). È presente in alcuni dipinti di Jusepe de Ribera (detto lo Spagnoletto) e in alcuni altri, che dal de Ribera prendono ispirazione, di Luca Giordano. Jusepe de Ribera giunge a Napoli nel 1616, quando aveva all’incirca venticinque anni, e nella città vicereale muore nel 1652. Per alcuni anni, circa nove, è il maestro di Luca Giordano, nato a Napoli nel 1634 (morirà a Napoli nel 1705). Entrambi, anche se in maniera diversa, si muovono sulla scia della lezione caravaggesca, in una Napoli che aveva rappresentato per Caravaggio il luogo fisico e ideale di un possibile riscatto personale dopo l’omicidio commesso a Roma sul finire di maggio del 1606 (a Napoli aveva realizzato, tra gli altri, i capolavori delle Sette Opere di Misericordia e della Flagellazione) e che proprio in conseguenza dell’eredità artistica lasciata durante il suo doppio soggiorno all’ombra del Vesuvio (nel 1606 e 1609) sarà per l’intero secolo una fucina di tanti pittori (oltre al de Ribera e a Giordano, vi lavorano Massimo Stanzione, Battistello Caracciolo, Artemisia Gentileschi, Mattia Preti, Bernardo Cavallino). La grammatica del de Ribera nella descrizione di san Sebastiano produce risultati altamente poetici, che rappresentano quasi un invito per Luca Giordano a riprenderne il tema.
La composizione del dipinto in esame è estremamente bilanciata. Si tratta di un olio su tela, di dimensioni 217,5 x 166 cm, realizzato intorno al 1653, conservato in una collezione privata. Opera quindi giovanile, quando i riferimenti sono la lezione di Caravaggio e i dipinti del de Ribera. L’azione di Irene è congelata un attimo prima di estrarre la freccia dall’ascella, immobili sono il martire e la pia donna sullo sfondo (la serva di Irene) che, con l’unguento medicamentoso in mano, attende di entrare in scena per completare con le proprie cure l’opera misericordiosa di Irene. La presunta casualità dell’assieme è invece studiatissima. Il busto di Sebastiano, il capo e le braccia, unitamente al piede destro in basso a sinistra si posizionano lungo una diagonale del dipinto; le teste delle due donne, il ginocchio sinistro del santo e la pietra in basso a destra suggeriscono l’altra diagonale. Volendo analizzare la composizione a un livello più alto di astrazione, da un punto di vista compositivo, si palesano figure proprie della geometria piana e dei solidi: le braccia del santo e il busto richiamano i cilindri, il copricapo di Irene una semisfera (come del resto a forme sferiche alludono le mani destre di Irene e della sua serva e volendo le mani del santo), i volti di Irene e Sebastiano sono due ovali, tutto l’arto superiore destro di Irene, evidenziato anche dalla diversa cromia del vestito, disegna una circonferenza, gli arti inferiori di Sebastiano evocano due triangoli quasi equilateri. L’opera anticiperebbe di due secoli e mezzo, rivedendola in questo modo, le ricerche postimpressioniste di Paul Cézanne, sintetizzate in una sua lettera del 15 aprile 1904 all’amico Bernard: “Permettetemi di ripetere quello che vi dicevo qui: trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, il tutto posto in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto o di un piano si diriga verso un punto centrale.”
Non è casuale che le aperture delle forme geometriche nel dipinto di Luca Giordano, le mani semisferiche e la circonferenza dell’arto, si dirigano, per dirla con Cézanne, verso il punto centrale della composizione. L’incontro delle diagonali è nella zona sternale del santo dipinta leggermente più rosata, intorno alla quale si irradia il bianco del torace. La scena retrostante è buia, allusione alla malvagità delle azioni umane alla quale si contrappone la luce proveniente da sinistra, si potrebbe dire caravaggesca con riferimento alla sua valenza sovrannaturale. Se il torace rappresenta il centro geometrico della composizione, si può affermare che l’epicentro del dramma in atto è l’unica parte in movimento momentaneamente bloccata dal fermo immagine del dipinto, cioè la freccia che sta per essere estratta, con un gesto lento, quasi chirurgico per evitare altro dolore. Lo spostamento della freccia è verso sinistra, da dove proviene la luce portatrice di bene, per annullarne il maleficio. A un’attenta osservazione ci si accorge che la freccia, l’unica freccia, ha una valenza altamente simbolica. Non ce ne sono altre. Probabilmente è l’unica che Irene è chiamata ad estrarre. In essa si condensano tutte le frecce scagliate ma non visibili; al corpo a mo’ di istrice dilaniato dalle numerose frecce raffigurate in altri dipinti, una sola ferita intacca il corpo atletico del Sebastiano di Luca Giordano. È in una posizione defilata, nella zona ascellare, lontano dai centri vitali.
Gli occhi dell’osservatore si posano sul gesto delicato delle due mani i Irene, attenta a evitare che la punta uscendo possa lacerare ulteriormente la carne. Alle gocce di sangue che potrebbero uscire fa pendant la lacrima che bagna il viso di Irene senza però distrarne la concentrazione. La mano sinistra spinge leggermente il corpo del martire verso destra mentre l’altra mano tira la freccia in direzione opposta. La pelle lacerata leggermente si solleva. Il capo del santo, reclinato all’indietro e con lo sguardo sereno, sembra in una dimensione atemporale, sospeso tra la vita e la morte. Tale condizione esalta la delicatezza del gesto di Irene, attenta a non provocare altro dolore anche qualora Sebastiano fosse già morto. Altrettanto studiata è la direzione degli occhi dei tre personaggi, chiamando in causa anche l’osservatore. Le due periferie del dipinto, cioè l’osservatore (l’al di qua) e la serva (il terzo piano di profondità), si cercano con gli sguardi e scrutano la scena, come in attesa. L’osservatore (che si potrebbe definire quale fedele essendo questo dipinto un’opera a tema sacro) si rivede nella serva, si fa servo di Cristo imparando che è un’opera di misericordia donare sollievo corporale ai bisognosi. La serva, con l’esempio e in silenzio, indica al fedele la strada. Non può rapportarsi, il fedele, direttamente con Irene e Sebastiano, due santi; rappresentano la finalità, mentre la serva è la sua compagna di viaggio. Irene guarda Sebastiano mentre questi guarda, a occhi chiusi, il cielo.
In questo dipinto altro rinvio a Cristo potrebbe essere, chiamando in causa anche Caravaggio, la pietra in basso a destra, una sorta di figura schematica, un parallelepipedo, sempre pensando a Cézanne. E questo spiegherebbe il vuoto scenico nel registro verticale di destra, l’intera fa-scia occupata dalla pietra che salendo tange il ginocchio e il polso sinistri. Un vuoto riempito da una presenza simbolica, appunto Cristo. Cristo, in una sua parabola, dice che “la pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo”; la pietra d’angolo, capace di tenere uniti due muri che si congiungono in un angolo, rappresenta Cristo che, scartato dagli uomini, tiene uniti gli uomini di buona volontà con il suo insegnamento e il suo sacrificio, la morte momentanea e la resurrezione eterna.
Nel dipinto della Deposizione (Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana, 1602 circa) Caravaggio presenta la scena all’altezza del sepolcro; Cristo è sostenuto da san Giovanni evangelista e da Nicodemo. Tre elementi sono estremamente importanti: la pietra mostra lo spigolo, la mano destra di Cristo indica il numero tre, al di sotto della pietra toccata dalla veste bianca cresce il tasso barbasso. Tutti e tre i particolari denunciano il passaggio dalla morte momentanea alla resurrezione eterna, infatti la pietra tombale si fa testata d’angolo (l’imprescindibilità di Cristo), solamente tre sono i giorni di morte terrena, la pianta che cresce nel sepolcro è simbolo di rinascita.
Nel San Sebastiano di Luca Giordano la pietra mostra lo spigolo (la testata d’angolo), vicino sembra che cresca una pianta, la mano destra pur senza vitalità indicherebbe il numero tre con il pollice, l’indice e il medio. San Sebastiano anche in questo sembra evocare Cristo. Ammirandolo nel suo assieme, anche per le sole emozioni istintuali che trasmette, il dipinto di Luca Giordano condensa l’assioma virtutem forma decorat, quella relazione irrinunciabile per cui la bellezza adorna la virtù, dal bello scaturisce il bene. Lo si legge nel significato intrinseco dell’opera, la bellezza di Sebastiano che invita Irene e la sua serva a fare del bene. E lo si legge nella bellezza formale del dipinto, esempio di armonia ed equilibrio, dove si bilanciano i pieni e i vuoti, le luce e le ombre, il dramma e la gioia; la tela trasmette, anche a chi non ne comprende a pieno il significato, il sentimento della compassione e della solidarietà.