Il “2 giugno 1946” in un articolo di Ignazio Silone, che fu membro della Costituente

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Ignazio Silone, uno dei più grandi scrittori del Novecento, fu, dopo la caduta del fascismo, bersaglio di una campagna di stampa che cercava di sostituire la sua immagine di “antifascista della prima ora” con quella di delatore e di spia della polizia fascista. Ma per fortuna le ricerche di archivio e le testimonianze di intellettuali che erano stati fascisti hanno dimostrato quale fosse la verità. L’autore di “Fontamara” non meritava nemmeno uno schizzo del fango che qualcuno cercò di lanciargli in faccia. (Correda l’articolo una immagine “storica”, presa dal sito “Radici”).

Per tutti gli intellettuali che, vivo e potente Mussolini, erano stati fascisti – e qualcuno anche fascistissimo – gli anni successivi alla morte del Duce e alla demolizione del sistema furono anni assai difficili, perché essi furono costretti a pentirsi, a convertirsi alle nuove forme del sistema politico, alla democrazia e alla Repubblica, e soprattutto dovettero dare, della loro adesione al fascismo, una spiegazione che permettesse all’opinione pubblica di giustificarli. Furono fortunati, perché l’opinione pubblica era ben disposta: quasi tutti gli Italiani portavano nella mente e nel cuore qualche segno della colpa e del peccato. Siamo pur sempre il popolo di Machiavelli e di Guicciardini. Che Ignazio Silone fosse uno dei più grandi scrittori del Novecento lo disse a Selma Weil Albert Camus, dopo aver vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 1957: “Il premio lo meritava Silone, perché le sue radici sono ben salde nel terreno della sua provincia e tuttavia egli è capace di parlare a tutta l’Europa”. Camus, come molti altri intellettuali europei, era rimasto affascinato dal romanzo “Fontamara”. Il romanzo, che Luigi Russo giudicò “il poema epico-drammatico della plebe meridionale, in cui per la prima volta questa assurge a protagonista di una ’storia’, acquista un volto” (“Italia Socialista”, 10-6-1948), fu la prima opera letteraria di Silone. Egli la scrisse nel 1930 a Davos, all’età di trent’anni, quand’era in esilio e gravemente malato. Soltanto nel 1932, in seguito al giudizio positivo del romanziere austriaco Jakob Wassermann che riscontrò nel racconto dattiloscritto “una semplicità e grandiosità omerica”, gli amici zurighesi convinsero Silone a lasciarlo tradurre e pubblicare in tedesco. Ma l’avvento di Hitler impedì la pubblicazione in Germania, e spinse l’autore e i suoi amici a dare alle stampe il romanzo in Svizzera, nella traduzione di Nettie Sutro. Ma di questo romanzo, di Silone e dei “redenti” – gli intellettuali italiani prima fascisti e poi non più fascisti – parleremo anche in altri articoli. Il 6 giugno 1946 lo scrittore pubblicò sull’ “Avanti” l’articolo intitolato “Atto di nascita”, in cui sottolineò il fatto che la Repubblica italiana nasceva non da “un assalto alla Bastiglia monarchica”, “né da alcuna altra forma di intervento improvviso di forze rivoluzionarie”: nasceva da un meccanismo elettorale affidato “alla vecchia burocrazia”: e questo era per Silone un fatto positivo, poiché aiutava a capire che la Repubblica nasceva non nel segno della violenza e dello “strappo” che caratterizzano una rivoluzione, ma come logica necessità storica. Era opinione di Silone e di Benedetto Croce che la monarchia era già finita il 28 ottobre 1922, alle ore 9.00 quando Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare il decreto di stadio d’assedio proposto da Luigi Facta: se l’avesse firmato, forse la “marcia su Roma” sarebbe stata bloccata e la storia avrebbe seguito altre strade. Se…forse…In ogni caso, scriveva Ignazio Silone, la “nascita della Repubblica è un atto di modernità: la società italiana si è liberata da una parassitaria sovrastruttura di origine feudale, e se ne è liberata per merito prevalente delle classi lavoratrici, le quali sono le forze motrici principali di ogni vero progresso della nostra epoca”. E per merito delle donne, che votarono, per la prima volta.Il 2 giugno finalmente arrivò il grande giorno. Alle donne fu consigliato di presentarsi alle urne senza rossetto: non si trattava di un divieto per motivi “estetici”, ma solo perché, nel chiudere con la saliva la busta, avrebbero potuto lasciare tracce di trucco, rendendo nullo il voto. Tra le donne che in quella tiepida mattina di inizio estate andarono a votare, c’era anche Anna Iberti, maestra milanese di 24 anni che dalle pagine di un celebre quotidiano sorrideva per celebrare la nascita della Repubblica. Divenne l’icona di un Paese che guardava con speranza al futuro, lasciandosi alle spalle le macerie della guerra.” (Daniela Ambrosio, “Elle”, 02/6/2025).