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I ragazzi dell’I.C. “Piero Angela” e le mamme celebrano un mito del Natale: il fascino dei dolci

Un grazie speciale alla prof.ssa Iole Nappi, Dirigente dell’I.C. “Piero Angela” di San Gennarello, e ai docenti che organizzando la manifestazione “Natale in cucina” hanno consentito alle signore e ai loro figli di preparare i dolci tipici del Natale e di partecipare a una gara gustosa, divertente, significativa. Un grazie particolare a uno chef magistrale, Pasquale Giugliano, alla sua signora, Donna Assunta Lisa, ai suoi collaboratori: la Pasticceria “Giugliano”, che ha sede in San Gennarello di Ottaviano, onora, al livello più alto, un vanto della civiltà vesuviana: l’arte dolciaria.

 

Gli chef della pasticceria Giugliano e alcune docenti dell’Istituto sono stati i membri della giuria che ha premiato le artefici dei dolci più deliziosi. La signora Giovanna D’Urso ha conquistato il primo premio con i suoi gustosi biscotti, ma tutti i dolci meritavano di essere premiati: per i sapori, per i profumi, per le forme. Perché sono stati capaci di illustrare ai ragazzi la relazione tra il Natale e certi dolci particolari, e di ridar vita, in chi non è più ragazzo, ai ricordi di un passato in cui, nei cortili, le mamme si riunivano in assemblea e, guidate dalle “zie”, si scambiavano ricette, consigli, ingredienti. Il Natale di un tempo che fu e ora non è più: ma è importante che la Scuola lo racconti ai ragazzi e ne illustri i valori, e faccia capire quanto importante fosse la funzione dei “cortili”. Scrive la dott.ssa Lucia Montesi, psicologa e psicoterapeuta: “Il sapore dolce è il primo con cui veniamo in contatto dopo la nascita, attraverso il latte del seno materno o del biberon. È anche il sapore preferito dai neonati, di pari passi con il rifiuto e l’avversione per l’amaro, una predilezione che ha la funzione di preservare la sopravvivenza tenendoci lontani da alimenti non commestibili o velenosi. Associamo il sapore zuccherino del latte, sin dall’inizio, a una sensazione di benessere, di appagamento, di pienezza, di vitalità.

Accade perciò che, anche da adulti, quando vogliamo concederci un momento di piacere o, soprattutto, quando ci troviamo in uno stato d’animo negativo, ricerchiamo quelle sensazioni di dolcezza.”. Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, cantava Julie Andrews nella sua nota interpretazione di Mary Poppins: insomma, un dolcetto ci consente di “mandar giù” un boccone amaro, un malumore difficile da digerire. Credevano i Greci che Zeus, il re degli dei, fin dalla nascita si fosse nutrito di miele: e miele mangiava Platone, nei primi anni di vita. Era perciò fatale che Greci e Romani collegassero il miele e le api ai valori della sapienza e dell’immortalità e attribuissero alla dolce sostanza il potere di sconfiggere i démoni del male e le tenebre del malaugurio. E la sapienza popolare ancora oggi “sente” che nella dolcezza degli struffoli, del panettone e dei mostaccioli c’è una “nota” particolare, c’è il “segno” di una forza capace di produrre serenità e protezione. Anche le forme dei dolci contribuiscono a sottolineare l’intensità di questa forza. Propongo solo due esempi, ma prometto che ne parlerò a lungo agli alunni, se la prof.ssa Jole Nappi me lo consentirà. Non mangio susamielli da quando ero ragazzo: li vendeva don Gustavo: nella sua bottega a piazza Taverna, a Ottaviano.

E’ ancora nitido il ricordo delle guantiere colme di “mattoni”, i solidi biscotti all’amarena, che erano la specialità del pasticciere. Avevano, quei susamielli del Natale ottavianese, la forma di una “esse” a stampatello, erano piccoli – gli uomini corti a Napoli li chiamavano “susamielli” – duri da sgretolare, saporosi di miele e segnati dall’odore particolare del sesamo. Quest’ erba nel suo lungo viaggio dall’India al Mediterraneo conservò intatto il suo corredo di simboli e di segni: la resurrezione, l’immortalità dell’anima, il mistero, la guerra contro i demoni. Non c’è da meravigliarsi se il Sud ha fatto dei susamielli un dolce natalizio, e se i Napoletani, rovesciando la scala dei significati, chiamarono susamiello il ceppo che serrava i piedi dei condannati ai lavori forzati. “ E stace sempe co lo sosamiello/ ntuorno l’uosso pezzillo “scriveva G.C. Cortese.

Apicio, il gastronomo dell’antica Roma, spiegò ai Romani che un mostacciolo fatto di farina, mosto, miele e mandorle tostate, immerso in un sugo di vino, di ruta e di pepe, vi depositava, lentamente e perciò intensamente, i suoi complicati profumi: con tale “bagna” egli spalmava la carne lessata prima di portarla in tavola Dunque, mostacciolo da mosto, e non, come ho letto da qualche parte, dai mustacchi, dai baffi. Il mosto era un dolcificante, e portava l’augurio della fecondità: i poeti latini raccontano che alla fine del pranzo nuziale venivano serviti mostaccioli, e gli invitati dovevano mangiarne almeno uno, anche se erano sul punto di scoppiare. Un augurio di fecondità suggeriva, per un chiaro riferimento analogico, anche la forma del rombo, un “segno” assai frequente nel culto della Grande Madre mediterranea, e, in tempi recenti, nella cultura dell’emancipazione femminile. Si può supporre che le monache del convento di San Sebastiano, i cui mostaccioli conquistarono il plauso di Giordano Bruno, quando preparavano questi dolci e quando li mangiavano, dichiarassero guerra ai demoni lascivi della libidine. Contro gli appetiti del sesso veniva invocato il soccorso della dolcezza pudica del mosto e del miele: che sono simboli, presso tutte le religioni, di sapienza assoluta.

 

 

 

 

 

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