Ciro Cioffi, Pina Salierno, Giuseppe Saetta, Dino Miele e Antonio Amato continuano, con le loro opere, la storia della pittura ottavianese, dopo la luminosa pagina “scritta”, nella seconda metà del ‘900, dai quadri realistici di Michele Arpaia, di Aurelio Bifulco e di Domenico Costagliola. Perché Michele Arpaia diceva che gli Ottavianesi preferiscono scrivere romanzi piuttosto che usare matite, pennelli e colori. Correda l’articolo l’immagine di un quadro di Giuseppe Saetta “Ischia: Il Castello Aragonese”.
Diceva Michele Arpaia, che fu grande come Uomo e come pittore, che gli Ottavianesi non amano aprirsi agli altri, rivelarsi, raccontarsi, e perciò preferiscono la parola, che si può manipolare, ai colori e al pennello, che non consentono di dissimulare. Sentenziò George Bernard Shaw che si usa uno specchio per guardare il proprio viso, e si usano le opere d’arte per guardarsi l’anima: e il principio vale per l’artista e per l’osservatore attento dell’opera. Ho già scritto qualcosa sui quadri di Ciro Cioffi, di Pina Salierno e di Giuseppe Saetta, e ho corredato gli scritti con l’immagine di qualche loro opera. Osservai che i quadri di Cioffi continuano, con assoluta coerenza, a richiamare alla nostra percezione le soluzioni cromatiche di Larionov e di Malevic e le “gouaches” su carta di Mark Tobey in cui la “la luce si materializza in una fine calligrafia” e crea sulla superficie ora l’ incontro severo di linee e di macchie di colore, “ora un universo quasi molecolare di piccoli segni continuamente iterati con infinita pazienza” (Francesco Poli), un universo dominato dal silenzio che spinge lo spettatore a riflettere e a porsi domande.
La Salierno continua a dipingere volti di donne pensose che si interrogano e cercano di capire: il chiaroscuro distrarrebbe l’attenzione dell’osservatore, che invece porta immediatamente il suo sguardo sugli occhi delle signore raffigurate: e sugli occhi il suo sguardo deve soffermarsi, perché lì la Salierno ha dipinto i dettagli necessari per cogliere il significato primo dell’immagine. L’osservatore attento capisce che l’artista è una donna coraggiosa, che si pone domande, a testa alta, e a testa alta cerca risposte, anche amare: e per capire chi sia l’artista basta leggere un passaggio di un suo recente post: “Sembra strano, ma preferisco gli attimi reali: quelli che non si vedono, quelli istintivi, improvvisi, quelli che non si possono filmare, quelli che restano nella mente, e non nella memoria di una scheda. È un mio modo di essere, e non nascondo che mi spaventa questo mondo mediatico che ci ha coinvolto. Non occorre neanche più la maschera. È tutto nelle impostazioni.”. Giuseppe Saetta segue i princìpi del realismo, nell’ inquadrare e nel disegnare le figure: ma riesce a cogliere e a mostrare allo spettatore solo i particolari necessari per definire il significato della sua “visione”.
E così, nel quadro la cui immagine correda l’articolo, il dettaglio fondamentale è il “movimento” del verde che trasmette la sua vitalità alle rocce brulle e alla tenue velatura di celeste di cui l’artista si è servito per dipingere un mare stanco e, direi, spento. Dino Miele e Antonio Amato conoscono le sperimentazioni post-cubiste e “neoplastiche” di Mondrian, di Gino Severini e di Carlo Carrà: ma proprio come accade nei quadri di questi tre Maestri i due artisti ottavianesi fanno emergere dal mosaico di forme geometriche figure compiute che diventano un sostanzioso richiamo alla realtà: lo strumento musicale nel quadro di Dino Miele (immagine in appendice), la colomba in volo nell’opera di Antonio Amato (immagine in appendice).
Entrambi gli artisti sono “realisticamente” attenti nel coordinare e nell’accostare i colori, a tal punto che la tessitura cromatica è più importante delle “figure” nel muovere la percezione dell’osservatore e nel dirci che sono pittori “vesuviani”: la loro arte è un invito a “volare” e ad ascoltare la “musica” del mondo. I loro quadri vanno “letti” tutti insieme, perché si commentano e si spiegano a vicenda: se Dino Miele e Antonio Amato dipingessero quadri “realistici”, non dovremmo dimenticare che lo spazio dell’opera l’hanno pensato e inquadrato in una “geometria” di linee e di colori, alla Mondrian.




