Attilio Pusterla, “Alle cucine economiche di Porta Nuova”, olio su tela, 1887, cm.138 x 203, Milano, Galleria d’ Arte Moderna. Il quadro è un notevole “esempio” di quella pittura verista che, collegandosi al Verismo degli scrittori e dei giornalisti, descrive, negli ultimi trenta anni dell’ Ottocento, la povertà che morde non solo i contadini del Sud, ma anche gli operai delle regioni industriali del Nord, e gli “emarginati” delle grandi città, come Milano e Torino. Ogni personaggio del quadro, pur trovandosi in mezzo a una folla, è chiuso nella sua solitudine. Le audaci soluzioni tecniche di un pittore importante, ma, ieri e oggi, poco noto.
Negli ultimi trenta anni dell’ Ottocento gli scrittori veristi Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Grazia Deledda, Emilio De Marchi, Renato Fucini, Paolo Valera e i giornalisti che volevano raccontare un’ Italia “vera” incominciarono a spiegare ai potenti della politica, della finanza e dell’economia ( e anche a una parte della Chiesa) che la povertà aggrediva non solo i contadini, i pastori e i pescatori del Sud, ma anche gli operai della Lombardia e del Piemonte, che ricevevano dai padroni salari di fame e che non avevano alcuna protezione sociale, e i ceti “miserabili” delle grandi città, mendicanti, prostitute, lavoratori a giornata. La crisi economico- finanziaria che colpì l’Italia tra il 1883 e il 1889 rese ancora più drammatiche le condizioni di consistenti gruppi sociali, rovinò non pochi borghesi “benestanti”, fece conoscere i morsi della miseria anche a impiegati di terza e quarta categoria e costrinse le associazioni e le istituzioni a distribuire il cibo quotidiano a un numero sempre più elevato di poveri. Angelo Morbelli dedicò i suoi quadri a questi disperati dipingendo “allucinanti istantanee” (Laura Rago) della vita che essi conducevano nel Pio Albergo Trivulzio, e nel 1887 Attilio Pusterla compose questo quadro sulla sala da pranzo, che poteva contenere 160 ospiti, dell’ Opera Pia “Cucine Economiche di Porta Nuova”, aperte quattro anni prima in un quartiere di Milano in cui erano concentrate molte fabbriche, e tra queste le officine della Pirelli e delle aziende legate ai trasporti ferroviari. Attilio Pusterla presentò il quadro alla Mostra annuale di Brera: qualche critico giudicò l’opera interessante, ma i collezionisti non ne furono attratti, trovando nel quadro non solo difetti tecnici, ma anche, e direi soprattutto, modi e toni di una denuncia sociale assai aspra: ma erano proprio i toni e i modi che il pittore aveva cercato, resistendo, mentre realizzava l’opera, ai consigli degli amici che lo esortavano ad addolcire in qualche modo la scena. Originale è l’impaginazione del quadro: la linea di lettura è obliqua, e questa è una soluzione ardita per una tela che misura cm. 138 x 203. Si “entra nella scena” dall’angolo in basso alla nostra destra, occupato dalla figura di un uomo con il cappello intento a mangiare e “sormontato” da una donna che porta in braccio un bambino, ha l’espressione angosciata e guarda verso l’esterno della scena. Al centro della linea obliqua c’è la nera veste di una donna “presa” di spalle il cui capo è coperto da un panno chiaro: la figura prepara il nostro sguardo a fermarsi sull’approdo della linea di lettura, e cioè su un gruppo di ospiti appena abbozzati con pennelli piccoli, che aspettano l’arrivo delle scodelle. La linea di lettura divide la scena in due sezioni: la sezione in secondo piano è un sintetico insieme di colpi di pennello che suggeriscono volti, teste e cappelli e mirano a costruire l’immagine della folla degli infelici ospiti delle Cucine Economiche. In primo piano c’è una sequenza di volti disegnati con tratti netti e essenziali: fu notato da un amico del pittore, il malinconico poeta Pompeo Bettini, che nessuno di questi volti esprime il piacere del mangiare, ma su tutti ci sono i segni della “distrazione”: questi infelici pensano ad altro, al dramma di un’esistenza che non viene addolcito né dalla minestra, né dallo stare insieme. Ognuno è chiuso nella sua solitudine, anche l’uomo in giacca celeste che pare che volga lo sguardo alla donna che gli siede di fronte. Dal punto di vista tecnico, Attilio Pusterla interpreta con grande originalità la lezione dei Macchiaioli, di Silvestro Lega in particolare: le pennellate sono larghe, stendono sulla tela grumi (il bianco delle barbe e dei capelli) e strisce ( i cappelli e la bottiglia in primo piano) densi di colore poco o per nulla diluito e piccoli pennelli a punta dura vengono usati, come se fossero penne o matite, per tracciare linee sugli abiti, sulle guance, sui baffi e sulle barbe: questo vortice di linee, che è una novità tecnica di notevole livello, venne giudicato in modo negativo da quasi tutti i critici e dai collezionisti dell’epoca. I colori dominanti sono gli ocra e i bruni, i colori della tristezza: ma ne rompe la trama il rosso della veste del bimbo e del fazzoletto annodato sui capelli della donna di spalle. Inoltre Pusterla ravviva le giacche brune del primo piano con tratti di rosso diluito, lo stesso rosso steso con leggerezza sulle guance e “posato” a grumi sull’indistinta folla della seconda sezione. Mi pare che Attilio Pusterla sia riuscito a rendere l’immagine di una povertà che forse è stanca e si è arresa al destino, ma forse è pronta a ribellarsi, a farsi sentire come quel rosso generoso…..Ma la sua prima intenzione fu, a parer mio, quella di “dipingere” la suggestione del sentirsi solo anche in mezzo a una folla così grande. E credo che ci sia riuscito splendidamente.