PER EVITARE LA BUROCRAZIA E LO SPRECO DEI SOLDI

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    Il dibattito sulle Big Society continua. Nonostante alcuni piccoli esempi già presenti in Italia, non sono poche le perplessità. Di Amato Lamberti

    Il tema della "Big Society" continua a suscitare grande interesse anche in Italia. A Napoli, la proposta di Romeo della gestione partecipata di un insula circoscrizionale della città ha sollevato discussioni e perplessità ma anche attenzione per un modello di gestione di servizi pubblici che coinvolge anche privati, associazioni, cooperative.

    Un modello, quello della "Big Society", promosso in Gran Bretagna, dal premier Cameron che propone una partnership tra lo Stato e le nuove soggettività -cittadini, terzo settore e ambito privato- non autoreferenziale, ma basata sui bisogni dei cittadini stessi e finalizzata ad una società migliore, con cittadini più attivi, responsabili e attenti ai bisogni della collettività, outcomes sociali più elevate e istituzioni più efficienti e accountable. Come dice Cameron, Big Society vuol dire "comunità capaci di costruire nuovi edifici scolastici, vuol dire servizi capaci di formare al lavoro, vuol dire fondazioni che aiutano i cittadini a riabilitarsi…".

    "Si tratta di un grande cambiamento culturale, in cui le persone, nella vita di tutti i giorni, nelle loro case, nei quartieri, nei posti di lavoro, cessano di rivolgersi a funzionari, autorità locali, o governi centrali per trovare le risposte ai problemi che incontrano, e sono invece abbastanza forti e libere da aiutare loro stesse e le loro comunità…". Per sostenerlo il governo non può restare neutrale, dice sempre Cameron, "dobbiamo liberarci di una burocrazia centralizzata che spreca soldi e fiacca lo spirito pubblico. Al suo posto dobbiamo dare molta più libertà ai professionisti, aprire il servizio pubblico a nuovi operatori come fondazioni, imprese sociali, aziende private, e così offrire più innovazione, diversità e responsabilità nei confronti delle domande pubbliche…". In pratica si tratta di una riforma del welfare che punta alla valorizzazione dei corpi intermedi, associazioni, cooperative, fondazioni,…

    Questo modello non è del tutto nuovo per l’Italia che ha già una forte infrastruttura di soggettività sociali e corpi intermedi che derivano dalla tradizione del cattolicesimo sociale e dalla rilevanza storica del fattore territoriale nella organizzazione di servizi collettivi. Ad esempio, in Trentino Alto Adige e in Veneto sono ancora oggi funzionanti diverse secolari Magnifiche Comunità, Fiemme, Ampezzo e Asiago, tanto per citarne alcune, che amministrano proprietà indivise di prati e boschi nell’interesse esclusivo dei "vicini", come spesso vengono chiamati gli aventi diritto, quasi sempre uomini residenti in alcuni comuni della zona e loro eredi maschi.

    Per quanto riguarda la situazione odierna, anche a limitarci al settore delle cooperative sociali, che è sicuramente quello più dinamico, anche perché svolge quasi per intero il lavoro di assistenza sociale che lo Stato ha dismesso, si contano più di 15.000 unità produttive (prevalentemente cooperative sociali, ma anche fondazioni, associazioni ed enti morali e religiosi) con 350.000 addetti (1.5% dell’occupazione nazionale), 5 milioni di beneficiari dei servizi e un giro d’affari pari a 10 miliardi di euro ( 0.6% del Pil).

    Il modello italiano è comunque costituito da soggetti molto piccoli, spesso riuniti in forme aggregative locali o nazionali, con un impianto decisamente comunitarista. Il problema è quello di superare l’iperframmentazione e andare oltre il localismo, da un lato, e dall’altro, ridurre il peso dell’intermediazione politica e della spesa pubblica. Il cosiddetto Terzo Settore è, infatti, in larga misura dipendente dal sistema politico-amministrativo, dal quale estrae la quasi totalità delle risorse con cui vive. È comunque evidente che se si partisse dalla già ricca e significativa infrastrutturazione sociale esistente in Italia, i fronti su cui si potrebbe lavorare sono molti: nuove forme di aggregazione della domanda da parte dei cittadini; messa in circolo di risorse finanziarie aggiuntive in modo da superare la dipendenza dal finanziamento statale; ruolo dei municipi nella identificazione di nuovi beni comuni; riforma fiscale.

    A sinistra, la proposta di Cameron solleva molti dubbi. Michele Salvati e Maurizio Ferrara hanno sottolineato, sia pure in termini diversi, lo stesso dato negativo: ottima idea, ma da noi non può funzionare perché troppe sono le carenze sociali, politiche, istituzionali. Indubbiamente l’idea della "Big Society" presenta numerose criticità. Innanzitutto il ruolo dello Stato, a fronte del nuovo engagement della società civile nella gestione di servizi pubblici, non appare del tutto chiaro, nonostante lo stesso Nat Wei abbia precisato che "più società civile non vuol dire necessariamente meno stato o fuga dalle responsabilità ma è semplicemente la presa di coscienza che lo stato da solo non ce la fa più ad affrontare grandi questioni sociali che appaiono ormai condivise".

    È chiaro però anche che, in un contesto in cui agiscono più soggetti, rimane compito dello Stato garantire il rispetto di alcuni diritti, quali, per esempio, l’uguaglianza nell’accesso alle prestazioni o alcune funzioni di regolazione e controllo.

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