Partendo da una domanda di un lettore, il prof. Ariola ci fa percorrere un tragitto a ritroso per condurci nell”antico mondo contadino dove:le sorprese non mancano.
Il sig. Bruno V. di Cardito ci scrive: “Nel suo articolo ‘La realtà enigmatica’ del 18 maggio scorso, riferendosi all”indovinello del secchio che ‘scenne ridenno e saglie chiagnenno’, ha affermato che esso è ‘interessante perchè costituisce un flash sulla nostra civiltà contadina:di qualche anno fa’. Poichè a me risulta che il secchio con cui si attingeva acqua o la si trasportava, era ed è usato da tutti, in che senso specifico questo oggetto si riferisce al mondo contadino?”
È vero, il secchio era presente in tutte le case, non solo dei contadini, e lo è tuttora, credo. Per i contadini tuttavia esso era uno strumento indispensabile per procurarsi l”acqua di cui aveva bisogno, attingendola dal pozzo o dalla cisterna di raccolta dell”acqua piovana, talvolta persino da bere, dato che la conduttura idrica non raggiungeva le case di campagna e non sempre le poche fontane pubbliche in paese erogavano il prezioso elemento, già normalmente avaro e quindi insufficiente per tutti. Oggi, si sa, è cambiato il tipo di secchio e l”uso che se ne fa quotidianamente.
Certamente non si utilizza ormai più per attingere acqua, nè si vedono più in giro secchi di metallo o addirittura di legno (-“o cato- come lo chiamavano in dialetto), essendo stati sostituiti da moderni esemplari di plastica di diverse fogge, dimensioni e colori. Altra cosa che è scomparsa è proprio il pozzo come fonte di approvvigionamento; ormai il sistema di conduttura idrica ha raggiunto tutte le case e anche i casolari di campagna più sperduti.
Ecco a questo ci si intendeva riferire, al tempo in cui, prima e anche per qualche decennio dopo la seconda guerra mondiale, qui in Campania in modo particolare, nei paesi di campagna esistevano solo fontane pubbliche e non sempre attive; ad esse si andava per l”acqua da bere, mentre per le restanti necessità si attingeva dal pozzo in comune che era collocato al centro del più o meno ampio cortile sul quale affacciavano varie abitazioni, o da quello privato nel cortile interno, dietro casa. Il pozzo serviva anche da frigorifero, vi si calava un paniere con cibi e bevande da tenere in fresco.
Nel pozzo appunto, si faceva scendere con una carrucola di ferro o di legno il secchio, di metallo o di legno, legato ad una fune di solito, e talvolta ad una catena di ferro, con il quale si tirava su acqua in gran quantità per riempire il lavatoio attiguo o per i vari usi domestici; si riempiva anche -“o cupellone- , ossia il grosso mastello nel quale la massaia preparava il bucato con acqua bollente e cenere (-“a culata- ), e si metteva, nei mesi estivi, al sole per far riscaldare l”acqua e offrire ai bambini un”ottima vasca da bagno.
Di tanto in tanto capitava che la fune consunta in qualche punto si spezzava e il secchio ripiombava giù e andava a fondo. Non ci si poteva permettere di perderlo, non c”erano soldi per ricomprarlo e quindi si doveva recuperarlo ad ogni costo. Si ricorreva alla “vurpara” o “vorpara” che era un attrezzo formato da due piastre di ferro incrociate alla estremità delle quali pendevano degli uncini;
con una fune si calava nel pozzo o nella cisterna e con una santa pazienza si tentava di ripescare il prezioso oggetto, che a volte si faceva prendere subito e risaliva docile fino alle mani soddisfatte del suo padrone, spesso però faceva il dispettoso e impegnava il pescatore per ore, mettendo a dura prova il sistema nervoso dello stesso e arrendendosi solo quando le imprecazioni e le bestemmie dell”infelice gli giungevano fin nel silenzio della profondità in cui era immerso.
Già il Galiani nomina questo attrezzo e ne inserisce il lemma tra le “parole del dialetto napoletano che più si discostano dal dialetto toscano” del suo vocabolario omonimo: “rampino di ferro per lo più a quattro aste, ma picciolo, simile ad un”ancora di nave, per uso di pescar cati, o secchi, che cascano nelle cisterne:,Cort. Ros. att.I,
“Tu pische da lo puzzo de sto pietto
co la vorpara de sta chiacchiarella”
Antonio Santella dà notizia di una vurpara di forma diversa: “attrezzo di ferro fatto con diversi uncini, legati ad un cerchio con catenelle, per ripescare secchie cadute in pozzi o cisterne”.
Il nostro esimio e sempre compianto Francesco D”Ascoli fa derivare il nome dal fatto che l”attrezzo somiglia alla “polpara”= “attrezzo per pescare i polipi”.
Quanto alla trasformazione della labiale ( -p- ma più spesso -b-) nella labiodentale -v-, essa è molto frequente nel nostro dialetto.(Es., “vocca” dal lat. “bucca, ae”).
La “vurpara” o “vorpara” si è prestata a utilizzazioni metaforiche. Oltre al Cortese citato sopra, famosa è la quarta egloga, intitolata appunto “La vorpara, che chiude la quarta giornata del “Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de peccerille” di Gianbattista Basile. Ecco alcuni versi tra i più significativi:
“Non sai ca non c”è ommo/ che non tenga a la mano na vorpara?/ co chesta campa e sguazza,/ co chesta sforgia e “ngrassa,/ chesta le mette bona paglia sotta,/ pe chesta vene a “nchiudere li puorce,/ co chesta luce e se fa chino “n funno,/ co chesta “nsomma domena lo munno!/::.vasta, ca non è ommo/ che non la porta sempe a la centura,/ chi d”oro, chi d”argiento e chi de ramma,/ chi de fierro o de ligno,/secunno qualità de le perzone./:.vasta c”ognuno pesca,/ e perzò a sto pescare/ è posto vario nomme:/ arrocchiate (= rubare), affuffare (=portar via), arravogliare (fregare),/ alleggerire, auzare (=raccogliere) e sgraffignare,/:..”.
Oggi la “vurpara” è scomparsa o si può ammirare in qualche museo della civiltà contadina ma …la pesca, purtroppo, continua!