Nella campagna elettorale si è visto di tutto e ormai, in queste occasioni, è elevato a sistema la febbre dell’apparire. La speranza di scegliere il bene è nelle nostre mani:
Il tempo elettorale è un tempo di scelte, un tempo quindi prezioso, per chi comprende che ogni tanto ci viene data l’occasione di essere veramente protagonisti di un evento. Si desidera continuamente manifestare la propria centralità; il nostro mondo vive in una parossistica competizione al mostrarsi, all’affermarsi e allora dovrebbe essere questa l’occasione per sbucare fuori e mettere in atto ciò che si sogna: diventare star per un momento.
Il protagonismo di cui parlo, diciamo, costituzionale, è molto più realistico di quello camuffato e inverosimile che fa balenare la televisione o i circuiti di internet; infatti questa volta si tratta del voto e non di una comparsata, di una vuota apparizione ad una festa mediatica; di un servile applauso in mezzo a centomila altri vuoti applausi. No, questa volta è un protagonismo serio, gravido di conseguenze civili non sempre calcolabili. È l’ora di una profonda sfida a se stessi: ho la capacità di scegliere il bene?
Eppure si ha l’impressione che, proprio in queste circostanze, i più si arrendano ad indegni riti di compravendita, compromettendo la possibilità stessa di realizzare un progetto serio. In effetti l’abitudine a spettacolizzare le propria esistenza viene espressa in nome della propria singola visibilità e non in nome di una compartecipazione, in riferimento ad una pluralità di altri uomini e di altre donne con i quali si costruisce un insieme ordinato di persone che si chiama comunità.
Nella campagna elettorale, che si è appena conclusa, si è visto di tutto: facce prestate al niente, che campeggiavano su miserabili manifesti; duelli individuali senza senso perchè senza legami con un progetto di vita; frasi strampalate che non hanno nemmeno dignità di slogan, men che meno di pensiero; nessuna seria elaborazione, ma solo una specie di febbre dell’apparire che sembra aver colpito tutte le generazioni e tutti gli strati sociali.
Coltiviamo ancora la speranza che non tutti abbiano gestito questo tipo di comunicazione unidirezionale con al centro il pronome personale IO; non sono in grado di poter svolgere una valutazione generica e credo che comunque in molti di quelli che si sono candidati alberghi la fiducia di veder prendere sul serio l’altro pronome di prima persona, quello plurale però: il NOI.
Bisogna scongiurare l’incrocio di due opposti egotismi: quello di chi si candida senza possedere gli strumenti della competenza, solo per un’esperienza di esaltazione individualistica, e quello di chi andrà a votare, elettore non di un sogno, ma di un interesse pur esso individualistico.
Secondo Ricoeur “la speranza viene a noi vestita di stracci, affinchè le possiamo confezionare un abito di festa”, per dire che la sua origine non è in noi, ma ne siamo come posseduti. Chi di noi infatti può confidare totalmente in se stesso? Eppure essa è affidata alle nostre mani, perchè possiamo seminarla con gli strumenti dell’impegno personale e di una politica agita come una sorta di ascesi monastica, una disinteressata visione profetica.