Per capire fino in fondo i motivi del successo dei neomelodici di camorra, dovrebbero parlare gli antropologi delle nostre periferie urbane e non i giudici. Di Amato Lamberti
Una canzone per "inneggiare a se stesso e al clan Birra", secondo gli inquirenti. Aniello Imperato, in arte Nello Liberti, è l’interprete di " ‘o capoclan", canzone che sarebbe stata composta per rendere omaggio al boss Vincenzo Oliviero, proprietario di "Radio Ercolano", l’emittente radiofonica sequestrata anni fa e che veniva utilizzata per mandare messaggi agli affiliati al clan detenuti. Nello Liberti avrebbe scritto di proprio pugno il testo della canzone " ‘o capoclan" che gli è costata l’iscrizione nel registro degli indagati insieme ad altre cinque persone, tutte affiliate al clan, che hanno interpretato sé stessi nel videoclip che accompagna la canzone.
La Procura aveva chiesto l’arresto per tutti ma il Gip Luigi Giordano ha respinto la proposta. "È una decisione che rispettiamo ma che non condividiamo", dice il procuratore aggiunto Rosario Cantelmo. I PM hanno già presentato ricorso al tribunale del riesame perché sono convinti che quella canzone è un vero e proprio manifesto ideologico della cosca e più in generale del camorrista, descritto come un modello positivo: "i camorristi sono raccontati come degli uomini veri, che non tradiscono i loro compagni. Autentici paladini dei principi tradizionali dell’unità familiari."
Basta leggere il testo della canzone per rendersi conto che si tratta di un vero e proprio manifesto di vita. "Da bambino non ha potuto studiare, per sfortuna dovette lavorare"; "Se ha commesso errori è stato per necessità. Ma tutto ciò l’ha certamente voluto Dio, se attualmente egli è un vero uomo di strada". Sempre a Dio il camorrista si affida, salvo poi a sostituirvisi in casi estremi: "Dio, proteggi i miei figli; ma se qualche volta non ti è possibile ci penso io, che sono il capoclan".
Passaggi eloquenti sulla vita del camorrista: "Per quest’uomo non esiste la libertà, per onore egli nasconde la verità"; sull’atteggiamento che un gregario in libertà deve tenere nei confronti del boss detenuto: "I ragazzi sono fuori ad attenderlo e già sanno cosa devono fare se arriva una lettera del capo, la condanna per chi ha sbagliato. Anche se lui ha questo atteggiamento è un capo e sa come bisogna comportarsi"; e poi l’elogio del boss: "Il capoclan non sbaglia perché egli è il capo della famiglia e deve saper comandare". Parole scritte da Vincenzo Oliviero, deceduto in carcere nel 2007, come racconta il pentito Agostino Scarpone: "Quella è una canzone che Vincenzo Oliviero, per come da lui stesso riferitomi, aveva egli stesso scritto, proprio per inneggiare a se stesso e al clan Birra…Tutta Ercolano sapeva di questo fatto".
Secondo il giudice Raffaele Cantone: "sarebbe sbagliato minimizzare e banalizzare l’accaduto, riducendolo ad una manifestazione oleografica o persino folcloristica. Quella canzone -che con le sue parole ed i suoi pensieri semplici, con la sua musica fatta di poche note ma orecchiabile- ha non solo una indiscussa capacità di fare presa in alcuni contesti sociali ma esprime una filosofia di vita molto più diffusa di quanto si possa credere." La canzone, in pratica, "traduce in musica un sentimento condiviso e diventa un enorme spot per la criminalità, capace, quindi, sia di dimostrare l’esistenza di un vasto consenso sociale, sia di generarne, attraverso la mitizzazione degli uomini del clan, altro ancora".
Anche l’ex procuratore della Repubblica di Napoli, Giovandomenico Lepore, sostiene che c’è qualcosa di più inquietante che non il semplice disco sul quale viene incisa una canzone che esalta le gesta di un capoclan o inneggia a fatti che sono esplicitamente considerati di estrema gravità dal nostro codice penale. "Oggi, sempre più spesso, assistiamo a fenomeni che indicano come una organizzazione criminale assoldi pseudo-cantanti, mettendo loro a disposizione improvvisati studi discografici. Con un solo risultato: quello di elogiare le gesta dei clan e di esaltare le doti del boss"…"la sottocultura che predomina in certe zone e in alcuni ambienti impone anche questo tipo di regole. Penso ai casi di feste religiose trasformate in strumenti utili a vantare il predominio e il pieno controllo di un territorio; o anche a feste che vantano antiche tradizioni popolari delle quali poi la camorra si è letteralmente impossessata".
Il gip Luigi Giordano, comunque, pur condannando l’assoluta negatività dei messaggi lanciati nella canzone, come "un’apologia delle procedure illegali tanto diffuse in certi ambienti, procedure innegabilmente esaltate e celebrate attraverso alcune espressioni della pseudocultura della musica melodica, brani che tendono a creare una sorta di orgoglio di appartenenza a questo o a quel clan, che incitano alla fedeltà e alla lealtà di natura criminale nei confronti del gruppo che sa farsi rispettare", non ritiene che ci siano gli estremi dell’istigazione a delinquere, anche perché si tratta di messaggi rivolti a tutti i possibili fruitori ma anche agli appartenenti al clan che in qualche modo si rispecchiano nella rappresentazione canora.
Se avesse firmato il mandato di cattura si sarebbe sicuramente aperta una voragine nella quale potevano precipitare le centinaia di cantanti neomelodici che si fossero cimentati in canzoni di malavita e di camorra. Ma si sarebbe sicuramente aperto un dibattito sul perché vengano ignorate e non criminalizzate canzoni anche molto più violente, come quelle di Eminem e dei tanti rapper americani e inglesi. Forse più che i magistrati dovrebbero parlare gli antropologi delle periferie urbane e culturali della nostra società.
(Fonte foto: Rete Internet)