Nella Napoli del primo Ottocento un visitatore che non amava il “pittoresco”, K.A. Mayer

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Karl August Mayer, saggista, poeta, professore soggiorna a lungo a Napoli negli anni ’30 dell’Ottocento, e su questa sua esperienza pubblica un’opera in due volumi, che Lidia Croce tradusse poi con il titolo:” Vita popolare a Napoli nell’età romantica”. Il carattere dei Napoletani e l’ intelligenza e la loquacità delle donne. Il quadro pubblicato è un’opera di R. Santoro, “Contadinelle”.

“Non capisco quelli che si permettono di parlare di Napoli dopo aver svolazzato in città, come farfalle, per un paio di settimane, tutt’al più. Il meglio che conosco di Napoli l’ho imparato vagabondando, guardando, osservando e chiacchierando con i lazzaroni e i pescatori, e l’ho appreso anche dalla bocca di persone di alto rango, che qui però si differenziano poco dai primi”. Si capisce perché l’opera del Mayer sia ritenuta dagli studiosi di fondamentale importanza per cogliere la sostanza della società napoletana in un momento decisivo per la storia d’ Italia e d’Europa: il tedesco cerca di andare oltre le apparenze, oltre quel folklore e quel “pittoresco” della “napoletanità” di cui si erano accontentati altri “viaggiatori” stranieri. E per questo grande è l’elogio che gli fece Domenico Rea. Per Mayer le donne napoletane non hanno la grazia delle italiane del Nord e la matronale “presenza” delle romane, ma i “loro occhi scuri sono profondi, ben tagliati e vividi come fuoco… non guardano mai smorti e inespressivi come tanti occhi nel nord”. Le donne napoletane sono loquaci, e contro questa loro loquacità spesso i predicatori scagliano dal pulpito aspri rimproveri. “Una volta – racconta il Mayer – un prete salì sul pulpito e così incominciò a predicare: – Io sono in un bagno di sudore. Sapete da dove vengo? Vengo dall’inferno. Sapete qual è l’aspetto dell’inferno? E’tutto pavimentato da lingue di donna”. Delle donne di Ischia anche lui scrive che sono “alte, svelte, esuberanti”, e che sembrano principesse, sia quando lavorano al telaio, sia mentre scendono le scale di casa “portando sulla testa l’anfora”. Significativo è il confronto che il professore fa tra i Napoletani e gli altri popoli europei: “Essi, i Napoletani, non sono pesanti e pedanti come i tedeschi, non vani e irrequieti come i francesi, né chiusi, superbi e legati a uno stupido cerimoniale come gli inglesi. Quanto poco il Napoletano sia incline alla malinconia lo mostra anche il fatto che qui molto di rado avvengono suicidi.”. Ed è un dato confermato per tutto l’Ottocento, prima e dopo l’Unità, dagli archivi di polizia e dalle pubblicazioni dei medici. Notevoli sono le riflessioni del Mayer sul complicato rapporto tra i Napoletani e il danaro, ma il tema, che desterà l’attenzione anche di altri viaggiatori, merita un articolo a parte.

Mayer registra con precisione le scene della vita pubblica. Il 24 giugno, egli scrive, “nel villaggio di San Giovanni, che è sulla strada per Portici, si celebra la festa del Santo che battezzò Cristo” e che è il patrono dei facchini. “Non vi sono bei costumi da vedere, come alla Madonna dell’Arco, tuttavia la grande quantità di veicoli tra Napoli e San Giovanni offre uno strano spettacolo: ogni sorta di birocci e di “curricoli”, pieni come se portassero vitelli, non uomini, copre la strada. In un carretto a due sedili contai quindici persone, quattro in carrozza, tre a cassetta, due sotto la cassetta, quattro dietro e una sotto, nella gabbia. Lo stesso cocchiere penzolava da un lato sul predellino.”. Solo il Mayer ci parla dei musici e dei “virtuosi” che la sera “improvvisavano” spettacoli musicali lungo la strada del molo, davanti a un pubblico di “lazzaroni e barcaioli” e solo lui ci dà notizia dei “cantastorie”, che, sullo stesso meraviglioso palcoscenico, cantavano “con voce melodiosa” e recitavano versi di Ariosto e di Tasso, usando ora la lingua italiana, ora quella napoletana. Anche quando pare che perfino lui sia vinto dal “pittoresco”, Mayer non trascura mai i dettagli realistici. A Madonna dell’Arco, nell’osteria che sta proprio di fronte al Santuario, egli incontra, realmente, le figure dei pellegrini, dell’oste, delle “serve” che fino a quel momento aveva visto solo nelle stampe e nelle “gouaches”, “ il più ricco bottino per i pittori di genere”.Pare al Mayer che tra tori, asini, muli e capre, tutti ballino la tarantella, mentre “nell’enorme cucina gli spiedi si voltavano lietamente e i pesci si crogiolavano nella padella “ e sul tetto, all’ombra della pergola, le ragazze di paese, secondo l’uso campagnolo, “offrivano allo straniero un piatto di maccheroni”.

È la magia dei luoghi e dei dettagli a cui anche Mayer deve arrendersi. Nel 1853 il suo connazionale  Ferdinand Gregorovius va a Nola, per la festa di San Paolino, e lì, nella città di Marcello, di Augusto, di Livia, vede che in una osteria gli avventori bevono il vino non dai bicchieri, ma dalle anfore. Come gli antichi. E’ fatale, dunque, che una vecchia signora che viene verso l’osteria circondata da belle ragazze, forse le sue nipoti, gli appaia come “ una matrona d’una bellezza classica”, avvolta in una veste di broccato che non può che essere “ a vita alta, alla maniera greca”.