Giudice della Gran corte criminale, Ferdinando Ingarrica fu poeta per diletto. La sua poesia, infatti, lo rese celebre nel 1834, quando diede alle stampe un opuscolo, in cui, ispirandosi, almeno secondo le sue intenzioni, al De Rerum Natura di Lucrezio, raccolse cento poesie didascaliche – da lui definite anacreontiche – su disparati argomenti e soggetti.
Ferdinando Raffaele Pascale Mariano Ingarrica, per tutti Ferdinando, nacque il 6 aprile del 1787 a Napoli da Pietro (+ 1809) ed Elisabetta Vitale. Fu battezzato il giorno successivo nella chiesa della Santissima Annunziata a Fonseca. Il padre Pietro era un uffiziale di Banco. Oltre a Ferdinando vi erano Carolina e Tomasina. Sposò il 2 settembre del 1819 Donna Clementina Salvadores. Divenuto legale, fu giudice della Gran Corte Criminale di Teramo (1822), Terni (1825) e Salerno (1830). Il primogenito Tito, nato nel 1822, di professione medico, morì giovanissimo all’età di 33 anni, gettando nello sconforto la famiglia. Oltre a Tito, ricordiamo: Elisabetta (n. 1825), Rosa (n. 1830), Giovannina (n. 1836), Vincenzo (n. 1839) e Teresa (n. 1843). La famiglia risiedeva nel 1822 a Napoli in vico Paradiso alla Salute al civico 16 nel quartiere Avvocata; nel 1830 a via san Mandato 64; nel 1839, infine, in strada Gesù e Maria 3. Per un breve periodo la residenza fu a Salerno in via santa Lucia e in Largo del Campo nel centro storico.
Ingarrica è citato dallo storico sommese Alberto Angrisani (1878 – 1953) in un suo articolo apparso sull’opuscolo Piedigrotta a Somma del 30 settembre 1899 a pagina 12. A riguardo, a conclusione del suo elaborato, scrive: …E prima che sia posto punto a questi brevi notizie (su Somma), ricordo che Ingarrica, il celeberrimo poeta del testamento, ebbe lunga stanza in Somma nella moderna villa Pagliano. La villa, meglio la sua localizzazione, è rimasta per tanto tempo un mistero per i numerosi studiosi locali per la semplice ragione che la struttura fu demolita. Era ubicata – afferma lo storico dott. Domenico Russo – nell’antico quartiere S. Croce, subito dopo le case popolari, dove oggi insiste una macelleria. Dopo essere appartenuta all’ing. Pagliano, la villa era pervenuta ai Picone, che agli inizi degli anni ’70 del Novecento la vendettero. Attualmente – continua il Russo – al posto della bella villa di campagna con cortile e due scale, una padronale e l’altra per la servitù, vi sorgono degli orridi edifici per civili abitazioni. L’identificazione della villa fu comprovata grazie soprattutto ai ricordi della signora Giuseppina Monti e del compianto prof. Achille Alfonso Romano. Sull’ Ingarrica – conclude Domenico Russo – vi è qualcosa nell’antologia poetica dello scrittore Ettore Janni (1875 – 1956) dal titolo: Poeti minori dell’ Ottocento, Ed. Rizzoli, Milano 1958.
Giudice, dicevamo, fu poeta per diletto. La sua poesia, infatti, lo rese famoso nel 1834, quando diede alle stampe un opuscolo, in cui, ispirandosi, almeno secondo le sue intenzioni, al De Rerum Natura di Lucrezio, raccolse cento poesie didascaliche – da lui definite anacreontiche – su disparati argomenti e soggetti, tra cui scienze e belle arti, ma anche vizi e virtù dell’umanità, composto per solo uso de’ giovanetti, dove scriveva poemetti didascalici come questo:
L’astronomia
Stronomia è scienza amena
Che l’uom porta a misurare
Stelle, Sol e’l glob’ Lunare,
E a veder che vi è là sù.
Quivi giunto tu scandagli
Ben le Fiaccole del Mondo:
L’armonia di questo tondo
Riserbata a Dio sol’ è.
Queste anacreontiche, poi chiamate ingarrichiane, storpiando il nome dell’autore, sono composizioni in ottonari di comicità inconsapevole, con ardite acrobazie verbali e spesso con l’ultimo verso apocopato, come riferisce nei suoi studi lo scrittore Marco Fulvio Barozzi.
La prima edizione, addirittura, fece ridere tutta Napoli, e il successo del libro provocò il moltiplicarsi di composizioni apocrife; le edizioni successive del libro, non autorizzate, misero addirittura in difficoltà il giudice Ingarrica con la Gran Corte. Sembra – racconta Barozzi – che la famiglia dell’autore abbia cercato di togliere dalla circolazione il maggior numero possibile di copie dell’opuscolo, per sottrarre dal ridicolo il loro congiunto. I commenti dei contemporanei furono spietati (bestia, spropositate poesie, conati strani), ma Ferdinando Ingarrica era riuscito a creare un genere non solo nuovo, ma di successo:
L’ubriaco
L’ Ubriaco è l’ uom schifoso
Che avvilisce la natura;
Tutto dì la sepoltura
Per Lui aperta se ne sta.
Il far’ uso del liquore
Con dovuta temperanza
L’ Estro sveglia, e con possanza
Spinge l’ Uomo a poetar.
L’ultima anacreontica era composta da soli quattro versi:
Il saluto
Ti saluto, o Gentiluomo,
Per averti rincontrato;
Il tuo piè sia salvato
Dall’intrigo ingannator.
Le anacreontiche ingarrichiane – conclude lo scrittore Barozzi – diventarono così popolari in tutto il Regno che, dopo l’unificazione, accadeva che due amici meridionali, nell’incontrarsi per strada, si dicessero a vicenda: Ti saluto, o gentiluomo. C’era anche chi le conosceva tutte a memoria. La poesia del giudice diventò di moda tra i letterati napoletani.
Alle composizioni dell’ Ingarrica furono ispirate, in seguito, le cento poesiole con le quali nel 1905 lo zoologo Carlo Emery, sotto il significativo pseudonimo di Cocò (il Pappagallo),volle mettere alla berlina l’uso di certi studenti di imparare a memoria gli argomenti d’esame. Come sicuramente furono influenzati i versi maltusiani dei futuristi che gravitavano intorno alla rivista Lacerba durante la sua breve vita (1913–1915) e frequentavano il caffè letterario Giubbe Rosse di Firenze.