Il reato previsto dall’art. 574 c.p. punisce la condotta del genitore che, contro la volontà dell’altro, sottragga il figlio per un periodo di tempo rilevante.
La Corte d’appello di Milano aveva ritenuto un genitore responsabile del reato di cui all’art. 574 c.p., condannandolo alla pena di otto mesi di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore della moglie.
Secondo l’accusa il genitore avrebbe prelevato la figlia al rientro da una gita scolastica e l’avrebbe tenuta con sè per due settimane, senza alcuna autorizzazione e contro la volontà del proprio coniuge separato, a cui la minore era stata affidata con provvedimento dell’autorità giudiziaria elvetica, per poi restituirla solo a seguito dell’intervento della polizia cantonale.
Il genitore ha proposto ricorso per cassazione.
Con distinti motivi, il genitore denuncia l’erronea applicazione dell’art. 574 c.p., in quanto non vi sarebbe stata alcuna volontà di sottrarre la minore, tanto è vero che il coniuge affidatario era a perfetta conoscenza del suo domicilio e, inoltre, si recava ogni giorno a scuola della figlia con la quale si intratteneva.
Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.
Infatti, perchè il reato sia integrato è richiesto che l’azione posta in essere dall’agente determini un impedimento per l’esercizio delle diverse manifestazioni della potestà del genitore.
Ed infatti è stato sostenuto che solo se la condotta posta in essere da uno dei coniugi porta ad una globale sottrazione del minore alla vigilanza del coniuge affidatario, così da impedirgli non solo la funzione educativa ed i poteri insiti nell’affidamento, ma da rendergli impossibile quell’ufficio che gli è stato conferito dall’ordinamento nell’interesse del minore e della società, ricorre il reato di cui all’art. 574 c.p. (Sez. 6, 25 giugno 1986, n. 12950, Ratiu).
Nella specie, la responsabilità del genitore è stata affermata con esclusivo riferimento alla circostanza che la minore è stata “trattenuta” per circa due settimane dal padre presso la sua abitazione, nonostante fosse stata affidata alla madre, ma omettendo ogni accertamento in ordine all’effettivo ostacolo che tale condotta ha avuto sull’esercizio della potestà genitoriale da parte della madre. In particolare, non risulta se il “trattenimento” abbia causato una radicale interruzione del rapporto della madre con la figlia, impedendo l’esercizio della potestà ovvero se, come assume il marito , vi sia stata solo un’inosservanza del provvedimento giudiziario in ordine ai tempi del diritto di visita riconosciuto al padre. Del resto, sembra pacifico che la moglie conoscesse la residenza del marito presso cui si trovava la minore e che, durante il periodo in cui la figlia è rimasta presso il padre, abbia incontrato ogni giorno la figlia, con la quale si intratteneva a parlare, circostanza questa che addirittura escluderebbe la sottrazione e comunque ogni ipotesi di ostacolo all’esercizio della potestà genitoriale, dal momento che la minore non è mai stata allontanata dalla vigilanza della madre.
D’altra parte, la sentenza non ha motivato in ordine all’elemento soggettivo del reato che consiste nella coscienza e volontà di sottrarre il minore, nel senso che l’agente deve avere la consapevolezza che il suo comportamento realizza una situazione antigiuridica mediante il trattenimento del minore.
Per questi motivi la Corte di Cassazione – Sez. Sesta penale -Sentenza 22911 del 27.05.2013, annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello.