Quell’applauso a Lincoln in un cinema di Nola

0
245

Vedevamo, “realmente”, Lincoln, e pensavamo alle “macchiette” della nostra politica. Una lettera di Lincoln a Macedonio Melloni, direttore dell’Osservatorio Vesuviano.

Alla fine abbiamo applaudito. Timidamente. Non eravamo abituati, ci siamo sorpresi di noi stessi. Qualcuno si era anche commosso. Nell’interpretazione di Daniel Day-Lewis abbiamo percepito il prodigio tragico dell’identificazione tra attore e personaggio: è raro che il fenomeno si manifesti con tanta evidenza.

Alla fine, è Lincoln che abbiamo applaudito, consapevolmente. Il tema del film di Spielberg è la storia della battaglia che il Presidente combatte perché venga approvato il XIII emendamento, che abolisce la schiavitù. Per vincere, Lincoln usa anche le armi sporche che i sistemi “ parlamentari “ conoscono e usano dai tempi di Pericle: la corruzione, il ricatto, il mercato dei voti, l’intimidazione. Usa anche armi vere, e in qualche caso nuove, che fanno della guerra civile un lungo, spaventoso macello. Spielberg non mitizza, rispetta la verità dei fatti, non nasconde le mani bagnate di sangue, ci dice che Lincoln, pur di vincere, non solo induce i suoi a mentire, ma si macchia lui stesso del sacrilegio più empio per un Presidente degli Stati Uniti: dichiara il falso al Congresso.

E tuttavia abbiamo applaudito, perché l’obiettivo di Lincoln, l’abolizione della schiavitù, è tale da cancellare anche tanta empietà, perché nemmeno chi lo odia può accusare il Presidente di aver spergiurato per difendere qualche suo interesse privato, perché il Presidente paga con la vita la vittoria dei suoi ideali. Lincoln è un profeta, traccia per il suo popolo la strada che dal presente porta al futuro, e lo avverte che il costo di lacrime e sangue sarà immane, e che tuttavia tutti, e lui prima degli altri, hanno il dovere di andare avanti. “Il mondo ci guarda“ grida il Presidente ai suoi collaboratori che vorrebbero aspettare, frenare, rinviare, tessere compromessi.

Abbiamo applaudito pensando che di lì a poco saremmo tornati a casa, ci saremmo seduti davanti al televisore, e avremmo chiuso la serata con l’inevitabile immagine di qualche “ attore “ del nostro teatro politico. Ci sono, in questo teatro, molte, incredibili “ macchiette “: rappresentano l’esatto rovescio del fenomeno che abbiamo percepito in quella sala cinematografica: sono persone in carne ed ossa, che cercano di nasconderci la realtà e di far passare come vero un mondo fittizio fatto di parole, di ininterrotti sproloqui: tentano, ma non ce la fanno: lor signori riescono solo a risultare ridicoli come persone, e ridicoli come attori. Qualcuno dovrebbe ricordare a noi e a loro che “ il mondo ci guarda”.

Macedonio Melloni, parmense, venne nominato direttore dell’ Osservatorio Meteorologico Vesuviano nel luglio del 1839. Il suo nome era stato fatto a Ferdinando II Borbone da François d’ Arago e da Alexander von Humboldt: il re si era fidato del prestigio dei due garanti, ma non ignorando le simpatie liberali dello scienziato, aveva preteso che egli gli promettesse che a Napoli non si sarebbe occupato di politica. E Melloni aveva promesso, persuaso che in quel momento la passione per la scienza dovesse essere anteposta alla passione per la politica. Ma i moti del ’48 e le accuse di un invidioso collega costrinsero lo scienziato, “riputatissimo discopritore del calore raggiante“, amico di Faraday, studioso del “magnetismo del Vesuvio“ e delle ricerche che Daguerre conduceva sulle tecniche fotografiche, a ritirarsi nella villa all’ Amoretto, presso Portici.

Qui, nel 1853, ricevette da Springfield, città dell’ Illinois, una lettera di Abramo Lincoln, che era allora molto più famoso come avvocato che come politico. Lincoln rendeva omaggio, prima ancora che allo scienziato, al patriota: e illustrando al patriota le sue idee sulla libertà dei popoli e sul destino dell’ Europa, egli scriveva che “l’impero austriaco e l’impero britannico sono due incongruenze storiche“ e che la “piccola Inghilterra“ non aveva alcun diritto di imporre “l’atroce ingiustizia del suo dominio“ sull’Irlanda, su Malta e su Gibilterra… Le invasioni barbariche e il crollo dell’Impero Romano “ hanno fatto retrocedere di secoli e secoli la marcia trionfale …della coscienza universale dei popoli affratellati. Ci avvicinavamo tutti, indistintamente, ad essere un solo popolo, una sola famiglia, e, repentinamente, le tenebre più fitte della più incomposta delle barbarie si addensarono sulla luce meridiana di Roma immortale e eterna.“

“Roma dovrà essere – scriveva Lincoln – la capitale luminosa degli Stati Uniti d’ Europa”. La lettera venne tradotta, “con gli occhi umidi e il cuore commosso “, da Giuseppe Mazzini, “per gentile preghiera della contessa Fulvia Salazar di Promanengo nata dei marchesi Crivelli d’ Agliate“. Lincoln rappresentava una società che era destinata alla democrazia perfetta anche perché non conosceva né contesse, né marchesi. E tuttavia nessuno meglio di Mazzini poteva cogliere la forza visionaria e profetica di una lettera il cui autore legge la storia come tempo di Dio, con la certezza che, nella vita degli uomini come in quella dei popoli, il presente e il futuro realizzano, necessariamente, i segni del passato. Nel ’53 Lincoln già sa qual è il destino che i cittadini degli Stati Uniti sono chiamati, anche attraverso la sua opera, a costruirsi.

Ognuno legge la storia a modo suo. Il sig. Berlusconi dice che Mussolini, eccezion fatta delle leggi contro gli ebrei – una sciocchezzuola –, ha prodotto cose buone. Invece di sbraitare, di scandalizzarsi e di aggiungere fiumi di chiacchiere a mari di chiacchiere, gli avversari del sig. Berlusconi dovrebbero o lasciare che egli dica ciò che vuole, o limitarsi a mostrare in TV le immagini di ciò che restava dell’Italia alla fine della guerra di Mussolini. Restavano solo rovine. Quelle materiali vennero rimosse. Degli ammassi delle rovine morali qualcuno ha provveduto a conservare, negli anni, figure e campioni: che resistono ai moti di coscienza, resistono alle risate, resistono agli oltraggi. Quella gomma della storia che cancella ciò che è inutile e superfluo tarda a venire. Ma verrà.
(Foto: Winslow Homer, Prigionieri dal fronte, 1866)

LA STORIA MAGRA