La riflessione di questa settimana si ancora ad un fatto di cronaca: gli sgomberi forzati dalla baraccopoli a Napoli, in via Marina. Un intervento di forza che non si cura dei drammi umani.
“Pagare di persona”, scrivevo nell’ultimo articolo di questa serie. “Pagare di persona? ” mi hanno chiesto tanti amici e anche qualcuno che mi detesta. Me lo hanno chiesto soprattutto i miei ragazzi, poco avvezzi a discutere di sacrifici e di rinunce: “Cosa vuol dire, prof.? “. Anch’io me lo chiedo costantemente, in mezzo alla follia di questi giorni, nei quali è iniziata la ciclica fiction del Natale, nonostante la crisi economica.
Avevo in animo di toccare altri argomenti, ma provo ad approfondire questo con degli esempi semplici e che stanno illuminando lo stesso mio cammino di questi giorni.
Effettivamente la parola “pagare” fa venire in mente un rendiconto, quasi un mercato pecuniario, poco adatto ad un contesto educativo. Eppure se andiamo al significato latino di “quietare” cominciamo a capire che il termine si riferisce ad una volontaria sottomissione, quasi ad un subire delle conseguenze dannose a causa di un fatto, un comportamento che a volte non dipende da noi.
É nella natura umana, che in questo caso si adatta perfettamente all’ispirazione evangelica, disporsi a coinvolgere la propria esistenza, i pensieri più cari, le competenze acquisite, in un dialogo dagli esiti imprevedibili, ma che pure raggiungerà risultati positivi se soltanto si riesce ad accogliere una diversità, un altro punto di vista, un orizzonte sconosciuto. La vita è un viaggio interiore; ci trasporta senza sosta intorno ad altri mondi, mete sempre diverse. Si possono strappare le vele, se si prende troppo vento o si rischia di morire di sete, se non si reagisce alla bonaccia, perciò sempre essa, per diventare sensata, ha bisogno di una suprema decisione: scegliere di non stare al centro di tutto. È questa maturazione che rappresenta la prima rata da pagare, perchè ci allontana da noi stessi, ci fa diventare stranieri a noi stessi, ma ci apre anche le finestre di una collaborazione che può diventare costruzione di una comunità, di una piccola comunità forse, ma attiva e in grado di risolvere i problemi.
I giovani sono i primi soggetti a sperimentare questa logica, soltanto se noi li aiutiamo a mostrare che è possibile, spendere qualcosa di noi, pagare un prezzo al nostro egotismo, per raggiungere la bellezza di un’ esistenza realizzata e serena.
É per questo motivo che voglio rendere pubblico quello che alcuni giovani di Napoli stanno facendo con coraggio e per la sete di giustizia che li anima. Si tratta di volontari che si stanno battendo per i ragazzi, gli uomini e le donne delle baracche di via Marina a Napoli. Fino a qualche giorno fa essi visitavano costantemente la disumana baraccopoli e da soli cercavano di alleviare come era possibile condizioni disastrose. La nuova politica di sgomberi forzati dell’amministrazione cittadina, però, ha avuto conseguenze disastrose, rispetto agli obiettivi, pur giusti, preventivati.
Infatti la dismissione della baraccopoli non ha fatto seguito ad una più umana sistemazione, anzi ha provocato drammi umani ancora più gravi, perchè queste persone si sono trovate dall’oggi al domani sulla strada, sui marciapiedi con solo un materasso e pochi stracci. Uno di questi giovani scrive: “Di fattivo cosa possiamo fare? (:) Smuoviamo l’opinione pubblica e lanciamo iniziative; compriamo tendine mettiamole in un luogo simbolo della città e accampiamoci. Ci sgomberano in cinque minuti? Prendiamo le tende e le mettiamo da un’altra parte”.
Con questo articolo offro, come posso, il mio contributo a questi giovani alternativi, pubblicando questa iniziativa e sperando che ilmediano.it sia letto anche da chi può aiutarli. A questi giovani sovrani, professori di vita, dico, se mi leggeranno, che li ammiro e spero di poter diventare come loro.