Parafrasando i tanti autori che usarono tale motto, su Napoli e i suoi abitanti, lo faccio pure per la mia amata Muntagna, icona di tutti ma figlia di nessuno.
Assistere inermi ad una catastrofe fa male, ma farlo con la consapevolezza che tutto ciò che sta accadendo sarebbe prima o poi avvenuto, fa ancor più male. Essere cassandre è inutile e nuoce a chi ne sopporta l’incombenza, è risaputo, ma mettetevi nei panni di chi vive all’ombra del Vesuvio, mettetevi nei panni di chi, nonostante viva entro i confini di un parco nazionale, notte e giorno, deve respirare i fumi di roghi tossici ed incendi più o meno dolosi; cosa fareste nei suoi panni? C’è chi decide di volgere lo sguardo altrove e far finta di niente, ed altri che invece decidono di guardare in faccia il male che li assilla, e noi stiamo con questi ultimi.
Ieri, cinque luglio duemiladiciassette, il mondo alle falde del Vesuvio ha fatto un passo indietro e lo ha fatto a ritroso fino al luglio del duemilasedici, là dove si pensava, e si sperava, che non si potesse andare oltre quel baratro che a memoria d’uomo non si ricordava dal dopoguerra ad oggi. Invece no, la contingenza, il clima e l’approssimazione di un sistema politico inetto che si alimenta solo della clientela e, nel migliore dei casi, dello scaricabarile, ha fatto sì che cadessimo nello stesso errore del passato e tutto ciò nonostante le tante avvisaglie che preannunciavano il rischio di incendi nel Parco Nazionale del Vesuvio.
A dire il vero la questione è ormai regionale, poiché il nostro Vulcano non è stato l’unico oggetto delle fiamme degli incendiari; solo ieri, di incendi ce ne sono stati almeno 15 ma se il pesce puzza dalla testa, le squame non sono per questo più profumate e l’inerzia regna, a monte come a valle del sistema politico regionale. Ritardi, scarsità di mezzi ed uomini, la mancanza di una centrale operativa efficiente e soprattutto l’assenza totale di prevenzione.
E non mi si fraintenda, non parlo solo della fase emergenziale, in quel caso tutti si muovono e talvolta si è anche capaci di grandi cose, ma parlo di ciò che scandalosamente accade prima di un incendio, prima di ogni catastrofe annunciata, allorquando bisogna pianificare e progettare un qualcosa di concreto e non finalizzato al proprio tornaconto elettorale. Perché dunque arrivare all’emergenza?
Il dato di fatto è che ci troviamo al cospetto di un parco nazionale senza speranza, in un contesto altrettanto disperato, dove si agisce solo a parole e spot, mentre la natura, la coerenza e il mondo che vi gira attorno vanno letteralmente in fumo. Buona parte dei roghi di questo periodo è senz’altro di natura dolosa ma tali reati sono tutt’altro che sporadici e reiterati ormai da anni e continuiamo a chiederci quindi il perché non si voglia far fronte seriamente a questo fenomeno. Inoltre, assieme alla pianificazione, perché non si pensa anche ad una forza stabile di volontari ed esperti dell’antincendio a presidio del Parco? Affiancato da un gruppo stabile di volontari per l’avvistamento dei fuochi, composto da gente che ama e conosce il territorio, sarebbe questa la soluzione più efficace e meno dispendiosa per chi lamenta sempre la mancanza di fondi.
Ieri pomeriggio ho assistito alla lotta strenua di una famiglia che cercava di proteggere, non più il suo giardino, ma il proprio lavoro, il sacrificio di anni messo a repentaglio dalla distanza istituzionale. Ancora una volta si è sfiorata la tragedia e se il tutto è andato bene lo dobbiamo alla buona sorte e all’avvedutezza di pochi. Cosa accadrà quando qualcosa andrà storto? Addurremo il tutto agli imperscrutabili strali del destino, all’eccezionalità dell’evento o ci gratteremo gli attributi?