Mentre il Liceo Classico – quello del Latino e del Greco – pare avviato al tramonto, è opportuno ricordare che la storia, la letteratura e le arti di Greci e di Latini hanno “spiegato” a generazioni di alunni che la conoscenza è un “viaggio” lungo una strada maestra da cui si diramano altre strade, ora ampie, ora strette, ma tutte importanti (lo diceva J. Carcopino). Si sono “confrontati” con Circe, tra gli altri, Giordano Bruno, Lope de Vega, Cesare Pavese. L’immagine di corredo è quella di “Circe” dipinta da J.W. Waterhouse.
La maga Circe, figura fondamentale della mitologia greca, dimora (Odissea, X, 135sgg.) nell’isola Eea che dovrebbe corrispondere alla punta del Promontorio Circeo. Nella struttura del suo personaggio confluiscono gli influssi delle maghe egiziane e anatoliche, ma i Greci hanno saputo raccontare la storia incastonando nella trama preziosi dettagli che altri scrittori avrebbero sviluppato nei secoli successivi nella costruzione di una figura di donna complessa e affascinante. La Circe di Omero trasforma gli uomini in maiali: offre ad essi dei “piatti” in cui ha mescolato sostanze malefiche, li tocca con la sua verga e subito gli ospiti incominciano a grugnire. La maga vorrebbe trasformare anche Ulisse, ma l’eroe si salva grazie all’erba moly, di nere radici e di fiore candido – una specie di aglio selvatico – che gli è stata fornita da Hermes. La maga ha molte cose da chiedere all’uomo che ha sconfitto la sua arte, e lo invita a restare: Ulisse accetta, resta un anno, fa un figlio, Telegono, con la padrona di casa, e quando decide di ripartire per Itaca con i compagni “tornati” uomini, Circe non solo non si oppone, ma suggerisce all’eroe di fare una capatina negli Inferi, per chiedere lumi sul proprio futuro, e gli fornisce preziose indicazioni su come entrare in contatto con il regno dei morti. Questa è la maga buona, che però sa anche essere terribile quando perde la pazienza: ce lo racconta Ovidio. Il pescatore Glauco gliela fa perdere: sebbene la maga gli comunichi di essere innamorata di lui, Glauco riserva i suoi sguardi, i suoi cianci e i suoi ardori solo a Scilla. Circe non sopporta l’oltraggio, versa miscele velenose nello specchio d’acqua in cui la rivale di solito fa il bagno e così la trasforma in un orrido mostro il cui ventre è circondato da teste di cagna. Ma la Circe di Omero è un personaggio “eterno” che ci invita a riflettere, a guardarlo da angolazioni diverse, a “entrare” nei suoi pensieri e nelle sue azioni da ogni possibile punto di vista, come “si entra” in un quadro di Caravaggio e di Rembrandt. E ci domandiamo cosa si sono detti, in un anno, Circe e Ulisse, e perché la maga accetta che l’eroe vada via, e perché gli suggerisce di incontrare le “ombre” dell’Ade. La storia e la letteratura dei Greci hanno creato un grande numero di questi personaggi che ci invitano a “percorrere” le vicende della loro vita, e a scoprire che la conoscenza è un “viaggio” in cui conosciamo per gradi quelle figure e contemporaneamente conosciamo noi stessi. Mi piace insistere sulla metafora del viaggio, ricordando che nel canto XXVI dell’ “Inferno” quando Ulisse incomincia a parlare a Dante e a Virgilio le prime parole le dedica a Circe, “che sottrasse /me più d’un anno là presso Gaeta,/ prima che sì Enea la nomasse”, e subito dopo rivela ai due poeti che quando tornò a Itaca gli affetti famigliari – il figlio, il padre, la moglie – non riuscirono a spegnere in lui “l’ardore/ ch’io ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”: egli si rimise in mare, con i suoi compagni, alla ricerca di “virtute e canoscenza”. Non si può escludere che proprio l’incontro con Circe abbia acceso in Ulisse il desiderio di intraprendere il “folle volo”. Nel dialogo “Le Streghe”, capitolo dell’opera “Dialoghi con Leucò”, Cesare Pavese ricostruisce in modo originale la storia dell’incontro tra Circe e Ulisse. Circe non è la maga terribile che ha trasformato Scilla in un orrido mostro: quando comprende che Ulisse partirà, perché Penelope è il suo vero amore, non si oppone in nessun modo, anzi lo aiuta e gli dà consigli: la Circe di Pavese sa che anche lei deve piegarsi alla volontà del Fato e che di quell’ incontro e di quell’anno trascorso con l’eroe conserverà solo il ricordo. Il dialogo tra la maga e Leucotea si conclude con queste parole: “L’uomo mortale non ha che questo di immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Nel “Canto di Circe” pubblicato da Giordano Bruno a Parigi nel 1582 Circe, dopo aver trasformato degli uomini in animali, spiega all’ancella Meri come sia possibile riconoscere nell’uomo i segni della natura bestiale. Nessuno ha cercato di capire cosa ricordassero del tempo vissuto da maiali i compagni di Ulisse quando ritornarono uomini: in realtà, anche essi erano stati, contro la loro volontà, protagonisti di un “viaggio” negli spazi della natura. E qualcosa ricordavano di quel viaggio, certamente…