A fine luglio scorso il parroco don Nicola De Sena chiamava a raccolta cittadini, rappresentanti delle istituzioni, donne ed uomini impegnati in politica e nel sociale e, aggiungeva, «di buona volontà». Mission: confrontarsi sul presente e sul futuro di Somma Vesuviana. La partecipazione fu pressoché discreta e ciascun intervento fece emergere una o più parole «chiave», tre in particolare saltarono agli occhi a don Nicola che poco più tardi raccontò di suo pugno l’evento proprio su queste pagine (leggi qui), in un intervento per il mediano.it: rete, comunità, cultura.
Da quel giorno, da quel 27 luglio nella chiesa di San Domenico, gli incontri sono proseguiti nello stesso luogo: un piccolo gruppo coordinato da don Nicola De Sena e costituito dal professore Ciro Raia, dal nostro direttore Carmela D’Avino, da Gennaro Mirolla e Salvatore D’Alessandro, ha continuato ad incontrarsi per aggiungere nuovi tasselli al percorso. Il secondo evento pubblico è previsto per venerdì 1 ottobre e in quell’occasione ci sarà un momento dedicato alla memoria, al ricordo delle vittime del 1 ottobre 1943, evento tragico della seconda guerra mondiale, il rastrellamento nazista più grande avvenuto in Campania dopo le quattro giornate di Napoli.
L’appuntamento però sarà naturale prosecuzione dell’incipit di luglio, «Sentinella, quanto resta della notte»? e nel corso della serata verrà presentato un documento programmatico. Quanto all’obiettivo, come più volte sottolineato da Raia, è «fare comunità», una comunità che torni ad occupare i suoi spazi nella città.
Il testo integrale del documento potete trovarlo qui di seguito, una sorta di canovaccio che si conclude con alcune proposte: momenti di incontro per le famiglie della città, iniziative «con» i giovani, progetti culturali, la creazione di un vero e proprio «Laboratorio di San Domenico» che dia continuità e stabilità al confronto pubblico.
Ecco il testo integrale del documento programmatico:
Forsan et haec olim
Meminisse iuvabit
Esistere insieme. È quanto ci proponiamo in questo tempo di inizio millennio, che, a definirlo sconvolgente, è dire certamente poco. E specificamente per la nostra città. Pensiamo a tutto ciò che è avvenuto fuori e dentro di noi, ai cambiamenti climatici, ai lutti delle pandemie, ai drammi della miseria ed a quella sempre più radicata miopia nel guardare al domani.
Vuol dire che in questo primi vent’anni del 2000 il Mondo ha, perciò, molto viaggiato ed è molto cambiato; vuol dire che anche la nostra città ha molto viaggiato ed è molto cambiata. E noi ci siamo in-consapevolmente immessi in questo circuito di trasformazione senza troppo riflettere, con poca umiltà e scarso senso d’appartenenza. Lo abbiamo fatto ben consapevoli di voler essere, però, protagonisti –ciascuno per le proprie responsabilità e capacità- nella modifica del concetto di presenza, di dare un contributo diverso al valore della parità civica, culturale e politica. Siamo usciti di casa senza il piacere di cementare reti di conoscenze, creare occasioni di dialogo; siamo usciti soprattutto per affermare il dominio/controllo su un luogo (che è però di tutti), per reclamare il diritto ad un consenso per ogni nostra piccola azione, per sventolare il nostro presunto apporto alla costruzione di un nuovo modo di intendere e vivere il valore della comunità, di interpretare il comune sentire come obbligo e non come dono/opportunità. Insomma, quasi sempre, ciascuno ha amato ascoltare (e ripetere dentro di sé): –meno male che ci sono io!
Niente è possibile conquistare senza sacrifici, rinunce, perseveranza. Davanti a noi non ci possono più essere scelte elitarie né velleitarie. Lo stare insieme, il cercare confronti, dialoghi, esperienze plurali dovrà essere il distintivo di chi ha deciso di non voler sfuggire ai problemi, di chi persegue lo stare bene (l’equilibrio personale) non voltandosi dall’altra parte, di chi ritiene che per essere puliti dentro bisogna anche sporcarsi le mani. E con le mani bisogna metterci anche la faccia e, soprattutto, il cuore. Il nostro stare insieme deve diventare un laboratorio esaltante di piccole conquiste giornaliere, deve essere il distintivo (non l’orpello) di una piccola comunità –la nostra, quella sommese- che, fermamente e continuamente, si industria a sgretolare muri di incomprensione, costruendo ponteggi per incontri/confronti (lo stare insieme). Costruire è il contrario di distruggere. Distruggere significa devastare, frantumare qualcosa che esiste. Costruire vuol dire, invece, immaginare, mettere insieme pezzo per pezzo, dare forma a qualcosa che non esiste. A ben pensarci, costruire è un sinonimo di creare, di far nascere qualcosa di nuovo dal nulla. E l’atto della nascita è il più prezioso tra quelli esistenti nella vita dell’uomo. Necessita di una madre e di un padre, di amore, di un incontro tra corpi; in altre parole, necessita della volontà e dei sentimenti indispensabili per dare inizio ad una comunità.
Ragion per cui il guardarsi negli occhi ed il non nascondersi dietro silenzi, dietro parole pensate ma non dette, dovrà essere la nostra regola futura. La società contemporanea, purtroppo, va sempre più verso l’infingimento e le conoscenze acquisite a buon mercato. La nostra comunità –la terra vesuviana- deve essere l’opposto, deve rappresentare una sorta di deterrente a un modo di vivere sciatto, superficiale, senza regole e senza passioni. Essa avrà il compito primario di recuperare, innanzitutto, il rapporto ed il dialogo costruttivo con i giovani.
Non sono i giovani che non partecipano alla costruzione di una comunità; siamo noi adulti che, immersi nella difesa di un potere acquisto (soldi, notorietà, consenso), respingiamo i possibili concorrenti. Così, invece di creare agio (opportunità, vantaggio), creiamo solamente disagio (allontanamento, svantaggio).
Allora la pratica essenziale di questo laboratorio, a cui vogliamo dare forma e vita, dovrà avere una cifra differente da altre azioni che abbiamo intraprese nel passato. Non dovrà avere un’impronta trasmissiva ma formativa (partecipazione attiva); perché i nostri interlocutori più giovani hanno bisogno, oggi, di essere formati piuttosto che gonfiati di informazioni sovrabbondanti e di difficile gestione.
Chi li ha educati a vivere in una visione di perenne presente, senza un prima e senza un dopo, siamo stati noi adulti. Chi ha dato valore alla conquista di un pezzo di carta quale che sia, eludendo i sacrifici ed il sudore che avrebbero dovuto caratterizzarne il percorso, siamo stati noi adulti. E noi adulti ci siamo educati ed abbiamo educato a (sopra)-vivere col voto di scambio, in un ambiente saccheggiato, tra le costruzioni abusive, tra le strade del guadagno facile, non disdegnando la corruzione e la violenza, affidando, spesso, il futuro di una comunità a conduzioni di facciata.
Avremo, in ogni caso, sempre la consapevolezza che il nostro impegno, i nostri sacrifici, le corse, gli impazzimenti dovranno essere finalizzati ad una causa comune: pensare in modo plurale, passare dall’io al noi, unire/cementare continuamente un gruppo/comunità. Ben sapendo di dare disponibilità in spirito di servizio, senza alcuna funzione di supplenza e/o di investimento personale.
ELENCHIAMO ALCUNE PROPOSTE CONCRETE:
- Per ri-creare lo spirito comunitario, dobbiamo tornare ad occupare gli spazi della collettività, creando momenti di incontro per le famiglie della città.
- Pensare delle iniziative “con” e non “per” i giovani.
- Continuare ad investire sulla scuola, creando progetti culturali per i nostri ragazzi, inserendoli nell’iniziativa già esistente dei “Pomeriggi vesuviani”.
- Dare stabilità al confronto pubblico, creando un vero e proprio “Laboratorio di San Domenico”.