Quando le taverne di Napoli offrivano ai clienti anche la compagnia di un poeta

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Mi sono ricordato di questa pagina di Salvatore Di Giacomo leggendo il programma del “simposio” – il “simposio” come lo intendeva Ateneo – che il Circolo “A.Diaz” allestisce per la settimana prossima. Esorto gli amici a non rispondere a quel tipo che ha proclamato in tv che Napoli è città brutta e senza cultura. Diceva Eco che si sta diffondendo un inquietante fenomeno: pur di “apparire” si mette a tacere il senso della vergogna.

 

Racconta Salvatore Di Giacomo che intorno al 1830 un “tavernaro” “mise frasca” poco lontano dalla Porta del Carmine e dal teatro di “Donna Peppa” e qualche anno dopo ebbe la brillante idea di disporre un buon numero di tavoli proprio ai limiti della spiaggia, all’aria aperta: divenne subito noto come “Monsù Arena” e così lo chiamarono anche i documenti ufficiali. La sua fama veniva sostenuta soprattutto dalle squisite fritture di pesce che serviva ai clienti. Salvatore Di Giacomo trovò nella Biblioteca Municipale un “libriccino” stampato nel 1834 da “tal Giuliano Letomago”, certamente un “anagramma” del nome vero che però il poeta non riuscì a scoprire. Scrive il Letomago che una sera d’estate camminava per via Marina “facenno cannulicchie”: e qui ci aiuta Francesco D’Ascoli spiegando che “cannulicchio” può indicare, nella lingua napoletana, una “persona alta e magra”, e dunque “fare cannulicchio” significa, attraverso un ampio traslato, “fare la fame”. E infatti il Letomago non aveva un soldo in tasca. Ma camminando arrivò ai tavoli all’aperto di Monzù Arena: tutte le sedie erano occupate da un gruppo festoso di giovanotti e di “figliole”, che accompagnavano le portate del pranzo con continui e lunghi assaggi di “lagrema, grieco, moscato, bordò e sciampagna”. Però mancava un poeta, un improvvisatore “la cui musa randagia – scrive Di Giacomo – per quanto estemporanea era la visitatrice e la confortatrice di simili simposii”. Letomago colse a volo l’occasione, si presentò alla comitiva, dichiarò di essere un poeta, e per darne la prova, “spalefecò un complimento in versi”, che convinse i presenti: “lu poeta è asciato”: abbiamo trovato il poeta (“asciare” significa “trovare, fiutare”, con riferimento ai cani da caccia che con il fiuto trovano la selvaggina;“spalefecare”, derivato probabilmente dal latino “palam facere” significa “rivelare, spiegare”).Letofago viene invitato a sedersi a tavola e a gustare le portate e il vino: e nel “libriccino” fa una bella descrizione di questa taverna all’aperto, in riva al mare: “la luna spicchiava infra lu mare/ rimpetto a nuie cu nu culore d’oro: / veneveno a la ripa l’onne chiare / addò stevemo nuie sedute ncoro: /nce steva ‘o venticiello a recriare, /frisco sciusciava e ghieva nu tresoro. Chi lo primmo stu luoco ave ammentato / sia beneritto! Nu grand’ommo è stato”. Letomago sta seduto accanto a una delle più belle ragazze del gruppo, e, sollecitato dagli applausi e dal vino, incomincia a fare “’o zeza” e, quando l’invitano a recitare altri versi, egli dedica parole, rime e gesti alla “porposa” fanciulla: la “porpa” è la polpa, la carne, e dunque la fanciulla aveva il fisico fiorente e ben provvisto, rispondente ai gusti di un’epoca ostile alla magrezza. Dopo aver recitato i versi, Letomago continua a “zeziarse”, a far smancerie: a questo punto i giovani della comitiva incominciano a torcersi sulle sedie, e, crescendo l’agitazione, uno dei convitati sussurra nell’orecchio del poeta: “vattenne, usa prurenzia, /ca stu cantà che faie nun sape buono. / Va pe li fatte tuoie e leva suono./. Letomago capisce che il gioco sta per “ascire nfieto” e se la squaglia rapidamente. Racconta che tornò spesso nella taverna sulla spiaggia, con la speranza di incontrare la figliola che non riusciva a dimenticare. Ma non la rivide più. Suppone Di Giacomo che il “tavernaro” continuasse a sfamarlo gratis in cambio della pubblicità che Letomago gli faceva scrivendo e cantando che soltanto da Monsù Arena poteva trovarsi ogni cosa de buono / la crianza, lo sparagno e lo buon tuono. “Il bon- ton – scrive Di Giacomo- : circostanza che fa supporre frequentatori aristocratici”. Altri “tavernari” seguirono l’esempio del Monsù, sostituendo sempre più frequentemente il poeta con il musico, i versi recitati con la “posteggia” di canzoni, chitarre e mandolini.