Baccalà si chiama il protagonista di una poesia di Eduardo: “Era luongo duje metre e vinticinche,// ” mmane appese mpont”a ddoje cordelle,// “a capa “e mbomma, “e piede a barchetelle:// “o mettetteno nomme Baccalà”. Questi versi ci dicono che non è facile valutare i toni dell’influenza che il baccalà ha esercitato sui costumi dei Napoletani. L’immagine di corredo è quella di un quadro di Irolli.
Marcellin Pellet, che fu console francese a Napoli dal 1888 al 1892, e che cercò di descrivere la città a occhio nudo, più di quanto non avesse fatto Fucini, conferma che “i più fortunati “tra li operai comprano per tre o quattro soldi un po’ di frittura di pesce, un piatto di maccheroni, un pezzetto di merluzzo o di carne di scarto del ragù, e “lumache bollite vendute dal maruzzaro che porta sulla testa una tavola con tre grossi paioli di rame puro abbagliante, guarniti di fogliame”.
Il baccalà occupava il posto più importante nel “canist’ ‘e Natale”, il “paniere natalizio” che comprendeva, garantisce Pellet, 34 articoli: l’abbonato versava 3 soldi al giorno dal 30 marzo al 24 dicembre: “per 3 soldi al giorno per 275 giorni, ossia per franchi 41,25, una famiglia ha a disposizione più di 100 libbre di vivande.”. Quattordici anni prima Spatuzzi aveva parlato del “puzzo specifico” del baccalà: nelle strade in cui abita “il basso popolo, come Porto, Pendino, Porta Capuana “ :“ troverete anche nei mesi più caldi di estate un grande numero di venditori di baccalare; non pochi altri ne incontrerete che vanno attorno per la città, e non potrete non riprovare il pessimo uso di gettare l’acqua in cui si sono ammolliti e lavati i baccalari in mezzo alle strade, le quali perciò massime nei luoghi sopra accennati sono luride, sporche e emanano un puzzo specifico “. Maccheroni, frittura di fragaglia e baccalà fritto erano piatti fissi della “cantina” che “teneva frasca” proprio di fronte al Santuario di Madonna dell’Arco: “nell’enorme cucina – scrisse Carlo Augusto Mayer nel 1840 – gli spiedi si voltavano lietamente e i pesci si crogiolavano nella padella.”. Il baccalà fritto, che chiedeva di essere innaffiato dai vini vesuviani, era il piatto rituale per le cantine disseminate lungo le strade dei “vatecari” e dei lavoratori a giornata, come “chille ca vanno a faticà’ ‘e riggiole” nella poesia che Ferdinando Russo dedicò alla “cantina d’ ‘o zuoppo”, “mmiezo ‘e Pparule, arreto ‘e cretajuole”. Esponeva l’assisa dello “stocco verace”, dei “baccalari” e delle “alici salate” la bettola di Carmine Giuliano, che “ teneva frasca” in contrada Macedonio, a Somma.ù
Poco lontano da questa bettola i briganti sommesi alleati di Vincenzo Barone esplosero, nel settembre del ’61, numerosi colpi di fucile contro Salvatore Casillo e suo figlio Felice, che era ufficiale della Guardia Nazionale, ma uccisero Giovanni Annunziata, che per sua sventura li accompagnava. Lungo il tratto della via dello Sperone che congiungeva Ottajano a Pollena e a Cercola, attraverso Somma e Sant’ Anastasia, si aprivano cantine e bettole, frequentate da “trajnieri” e “vatecari”.Nel 1868 alcuni trainieri di Ottajano ottennero la patente per il trasporto di pesce salato e di baccalari da Somma, Sant’ Anastasia, Sarno: i Casillo del quartiere Casilli di San Giuseppe, gli Ambrosio di contrada Mastanielli, i Boccia e i Fabbrocile di via “alli Bocci di basso”, i Ragosta di piazza San Lorenzo nel Centro Abitato. Sebbene le notizie fornite dal documento non siano esaurienti, è lecito supporre che la concessione della patente avesse richiesto, in via preliminare, alcune garanzie relative alla struttura dei carri, a particolari competenze dei cocchieri e degli inservienti, a solidi rapporti con i fornitori. Agli inizi del ‘900 l’economia vesuviana dei “baccalari” e dello “stocco” si sistemò secondo schemi che rimasero intatti fino agli anni ’70. Sedi e magazzini dei grossisti stavano tutti a Napoli: Raffaele Bianco e Gaetano Fernanadez a piazza Mercato, e qui il Fernandez vendeva i prodotti anche al minuto; Joseph Berncastel a via Flavio Gioia; Albert Von Lobstein nel corso Umberto I. Ma le quote più consistenti del mercato erano controllate da Alberto Simonetti, che importava “direttamente” “baccalari, stocco ed ogni altro genere di pesci secchi, salati e all’olio” e teneva magazzini e depositi a via Antonietta De Pace, alla Dogana Nuova, alle Fontanelle e a Poggioreale.
Ricordiamo ciò che scrisse nel 1990 Cosimo Scippa, che fu sindaco di Sant’ Anastasia e pubblicò i più importanti documenti dell’archivio storico del Comune: dal 1847 al 1910 “la più grande industria del nostro paese era la lavorazione dei pesci salati”. “Inizialmente avevo letto la notizia nell’ Annuario del Porto di Napoli del 1901 e non avevo dato il giusto valore a una voce, ivi segnata, che riportava l’export di tale Francesco Maione di S. Anastasia per L. 8900”. Ma gli atti comunali dei secc. XVIII e XIX confermarono al sindaco- storico che l’industria dei pesci salati non solo dava lavoro a più di metà della popolazione, ma procurava alla città lo stesso problema rilevato, a Napoli, dallo Spatuzzi: i baccalajuoli avevano la pessima abitudine di riversare l’acqua di ammollo per le strade in qualsiasi ora del giorno e della notte.