Perché il Napoli non deve giocare a mezzogiorno, di domenica. E’ il segreto dell’”onda marina” di cui parlò P.M. Doria, nel 1709

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G.Courbet, l'onda marina

I Napoletani sono carichi di un magnetismo che, come un’onda marina, sospinge e guida i giocatori. Per tre secoli gli studiosi hanno pensato che questa forza nascesse dal Vesuvio: oggi si ritiene che nasca dal ragù, in cui il potere “infernale” del pomodoro si trasforma in energia positiva. Ma il ragù va consumato dopo le 13.30: e dunque solo il Nemico può pretendere che il Napoli, la domenica, giochi a mezzogiorno.

L’allenatore del Napoli, Maurizio Sarri, ha detto chiaramente che giocare la domenica a mezzogiorno gli fa schifo. Dalle sue parole è divampato subito il fuoco della polemica, di una polemica in verità pretestuosa, tanto che la mia amica Tilde, lauretana, competente di calcio e tifosissima del Napoli, si è vista costretta ad elencare puntigliosamente tutti gli allenatori che prima di Sarri avevano espresso giudizi risolutamente negativi su quell’orario: e nessuno aveva fiatato: tutto “pace e amore”. E’ quasi certo che il giudizio di Sarri e dei suoi colleghi nasce da ragioni di sport, ma  dietro questa “incompatibilità” tra la squadra di Mertens e di Insigne e la partita del mezzogiorno domenicale c’è, forse, una storia straordinaria.

Tutti sanno che nello stadio il tifo dei napoletani ha una natura particolare: è come un vento che spinge alle spalle i giocatori azzurri, li carica di energie, dà forza al pallone e ne modifica la traiettoria: perfino certi stop alla Maradona, eseguiti da qualche difensore di Sarri dal piede non proprio sensibile, sono in realtà guidati da questo vento magico che cala dagli spalti e frena la sfera depositandola delicatamente sul piede del giocatore. A questo vento da stadio si unisce il soffio gigantesco che viene dalle case. Quando gioca il Napoli e la TV trasmette la partita, per le strade delle città che hanno l’azzurro nel cuore si muove uno strano silenzio, che non è quiete, ma spasimo, vibrazione, impeto: esplode, questo silenzio, in un boato quando il Napoli segna, e tremano i vetri, e si scuotono perfino i muri, tanto che nel 2011 quando Cavani mise la palla in rete sul campo del Manchester City l’esultanza dei tifosi napoletani venne registrata dall’ Osservatorio come una scossa sismica.

Insomma, l’avete capito: il tifo dei napoletani è un’onda – gigantesca come l’onda di Courbet – carica di una forza magnetica che si sprigiona dal corpo e dal cuore delle persone. Renato Fucini e Vicente Blasco Ibanez scrissero che i Partenopei e i Vesuviani sono gente “affascinante”: e si scusarono per la banalità dell’aggettivo: non avevano trovato di meglio: non sapevano, gli ingenui, che quel “fascino” è invece una forza reale, come l’energia che si irradia da una calamita.Nel 1709 Paolo Mattia Doria sollevò per un attimo il velo che la politica e i teologi avevano steso sullo sconvolgente fenomeno, illudendosi di nasconderlo. Scrisse il Doria che quando il Vesuvio è prossimo a eruttare, l’aria si impregna di zolfo, e una” forza”  – travolgente come “un’onda marina” – pervade cuore e corpo degli “indigeni”, a tal punto che essi diventano facili all’ira e all’impeto, e inclini “a ferire”: in quei momenti aumentano in tutto il territorio i reati di sangue. A metà dell’Ottocento anche il dott. Giuseppe Maria Carusi pensò che dalla lava del vulcano si sprigionasse una “elettricità antagonista “capace di attirare verso il cratere, perfino dalla lontana terra di Benevento, nugoli di insetti e sciami di farfalle: essi, sentenziò il dottore, non possono resistere all’”attrazione”, “invano cercano di fuggire, perché, sospinti dalla forza estranea al loro volere”, vanno a morire nel cratere.

Ma poiché la storia segue sempre un percorso circolare, gli studiosi di oggi assolvono il Vesuvio e spiegano il “magnetismo” dei Napoletani non più con il rosso della lava, ma con il rosso del pomodoro. Nel 1748 scriveva l’abate Chiari  che non c’è niente di più malefico del pomodoro, che “accende le passioni”. La maledizione gravò sull’ortaggio fino ai primi anni dell’Ottocento: racconta Stewart Lee Allen che nel 1820, allorché un cittadino del New Jersey, Robert Johnson, annunciò che avrebbe mangiato pubblicamente quel “frutto” del diavolo, si presentò all’esibizione una marea di curiosi, convinti che quel pazzo sarebbe morto al primo morso.

Ma al ragù napoletano la Storia e il Destino hanno assegnato il compito storico di trasformare in energia positiva la forza magnetica del pomodoro, di quel rosso e di quel sapore che in verità lo portano, qualche segno del vizio e della maledizione. Perciò il ragù richiede tempo, pretende un rituale di gesti che la madre di Eduardo De Filippo aveva imparato da sua madre e da sua nonna, chiede la presenza dell’aglio, che, come si sa, è nemico del diavolo e dei lussuriosi. E poi il ragù deve “pippiare”, perché quel lungo borbottio è la garanzia che nel “tiano” l’alchimia del fuoco, i movimenti della “cucchiara” e  gli umori dell’aglio e della carne stanno trasformando in positiva la forza magnetica del pomodoro. Chi mangia ragù napoletano assume, e conserva fino a sera, l’espressione estatica di chi ha partecipato a un rito misterico. E quando il Napoli scende in campo, alle 15.00, o alle 18.00, o di sera, misteriose scie di forza si muovono, come una marea invisibile, ma reale, verso lo stadio, verso le maglie: è un’onda oceanica, che non si placa fino all’ultimo minuto, e che può essere esorcizzata e frenata solo da avversari e da arbitri che il Nemico ha opportunamente addestrati.

Dunque, far giocare il Napoli a mezzogiorno è una pugnalata alle spalle: i Napoletani il ragù lo consumano tra le 13.30 e le 14.00, non possono mettersi a tavola alle 11.00: e se anche si mettessero a tavola a quell’ora, non risolverebbero il problema, perché, come disse qualcuno, prima di mezzogiorno il magnetismo del ragù “scaca”.