Roma, nel momento di massima espansione al di fuori dei confini nazionali, in particolare nei decenni che intercorrono tra la fine del III sec a.C. e la metà del I sec a..C., aveva conosciuto un’ellenizzazione rapida e progressiva: la moda greca, la diffusione di una buona parte dei suoi costumi, allargano gli orizzonti culturali della caput mundi. La Grecia aveva condiviso la stessa sorte con gli altri territori del mediterraneo, passando sotto il controllo integrale di Roma ma, a ben guardare, fu l’impero ad essere sconvolto e rapito dal grado di civilizzazione raggiunto dalla fiorente cultura greca, tanto che quest’ultima venne assorbita ed integrata nella strategia politica di celebrazione del potere imperiale.
Per i maestri romani i modelli al di là dello Ionio di Fidia, Prassitele, Lisippo e Co. erano il più prezioso prontuario di grecità di cui si potesse disporre per la nuova arte imperiale; di conseguenza, le città più rappresentative dell’arte classica divennero il bersaglio prediletto da cui Roma, importava, insieme a nutrite schiere di artigiani e maestri, i grandi capolavori della classicità.
Col fascino imperituro che l’arte greca aveva fin dagli inizi suscitato le culture occidentali si sono regolarmente confrontate, come accaduto con la conquista romana, importando quelle testimonianze preziose d’arte ellenica e della Magna Grecia, che di quella civiltà era il florido avamposto italico. Mutatis mutandis, quindi, si è ripetuto spesso e volentieri che i colossi di marmo greco finissero “fuori contesto”, anche attraverso il tramite del mercato illegale dei beni culturali.
Il caso spinoso della “Venere di Morgantina”, tornata in patria dopo oltre trent’anni – nel 1979 era stata trafugata illecitamente da tombaroli nostrani- è emblematico: restituita al luogo che l’aveva partorita solo dopo essere finita oltreoceano, dove, dal 1988, l’imponente statua di marmo e tufo (alta oltre due metri e scolpita da un discepolo di Fidia alla fine del V secolo a.C.) venne acquistata per 18 milioni di dollari dal Paul Getty Museum, fondato solo l’anno prima in onore del petroliere e collezionista scomparso nel 1974. Il museo californiano vanta una preziosa collezione di reperti greci, etruschi e romani, di cui la Venere era il prezzo più pregiato.
L’annosa questione sull’acquisizione e la proprietà di alcune opere (tra cui anche l’ “Atleta di Fano”) che ha visto protagonista l’ istituzione americana è ben lungi dal dirsi risolta, ma, oggi, la Getty Villa di Malibù si è arricchita di una nuova serie di opere d’arte, questa volta gentilmente concesse dal Museo Nazionale Romano e dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Una partnership fortemente voluta dal Getty che, messo in standby l’aspro contenzioso, può proporre al pubblico stelle e strisce la Venere di Capua, l’Ermafrodita dormiente e alcuni affreschi provenienti direttamente dalle ville pompeiane, quelle vere. Sì, perché l’eccentrica villa del magnate americano, poi convertita in museo privato, è stata progettata sul modello della “Villa dei Papiri” di Ercolano e ispirata a tutta la cultura pompeiana: la reggia Pompeian style è un vero gingillo lussuoso che appagava la passione del miliardario americano per il mondo greco-romano.
Una versione extra deluxe, una ricostruzione curata ed attenta ai dettagli, ma pur sempre un’ imitazione, soprattutto per chi ha la possibilità di godersi Pompei e le sue meraviglie “originali”, con poco sforzo. Ma, come detto, la Magna Grecia e le sue meraviglie artistiche hanno sempre acceso gli appetiti più vari. Se Roma, con la conquista sfrenata e il culto della grecità che serviva per accentuare il proprio prestigio, ha finito per favorirne la diffusione e la consacrazione mondiale, oggi, il caso della “simil-Pompei” transatlantica, delle sue oscure acquisizioni, che quasi rievocano le spoliazioni succedutesi per secoli in tutto l’Occidente, sembra rispondere all’adagio vichiano più celebre: i corsi e ricorsi si ripetono, con puntualità, anche nella storia dell’arte e dell’archeologia.
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