Nel 1916 E.A. Mario, in “Canzone Vesuviana”, dedicò immagini splendide, per le parole e per la musica, ai giardini e alle selve di Ottajano. Ovviamente, tutti ricordano E.A. Mario per la “Leggenda del Piave”, ma non bisogna dimenticare che egli ha scritto il testo e la musica di “Santa Lucia luntana” , di “Vipera”, di “Le rose rosse” e la musica di “Tammurriata nera”.E qualcosa bisognerebbe fare anche per ricordare “’A pacchianella d’ Uttajano” di Errico Capurro.
“ Se ne sagliesse a parte d’Uttajano / chi vo’ campa cujeto, si vo’ bene”. Così inizia “Canzone vesuviana”, in cui le vigne, che producevano il vino “principe” di ristoranti e cantine di Napoli, diventano la maliziosa metafora della passione d’amore. La “vocca rossa” della donna è la “più bella vigna” e “acene d’uva songo ‘e vase doce”. E quando l’amore ritarda, “trica”, è “lapillo ‘e fuoco”, “e ce fa ardente a poco a poco.” “E nuje saglimmo. E stammo ‘ncielo quase./Luntano veco casarelle e chiese / Ah, che funiculare songo ‘e vase / Nuje ce vasammo e ghiammo ‘mparavise”. Credo che non sia necessario né tradurre, né sottolineare il vigore espressivo di alcune immagini. Le “casarelle” della campagna vesuviana, che attirarono l’attenzione del poeta musicista, mi hanno indotto a corredare l’articolo con le “casarelle” di un quadro di Oswald Achenbach. Racconta Vittorio Paliotti che nel 1922 la comunità dei Napoletani d’America invitò a New York E.A. Mario, “impiegato delle regie poste e Maestro di café chantant”. A salutare il poeta musicista che partiva si riunirono nel porto di Napoli “migliaia di persone” e, mentre la nave si staccava dal molo e E.A. Mario dalla poppa salutava sventolando la paglietta, i mandolinisti e i chitarristi suonarono le prime note di “Santa Lucia luntana”, che tutta la folla, in coro, cantò. I Napoletani che vanno via dalla loro città, “quando sponta ‘a luna”, sono vinti dalla nostalgia, e si mettono a suonare, ma le mani, scosse dai ricordi, tremano sulle corde di chitarre e mandolini. E il cuore non si consola nemmeno con il canto: “se mette a chiagnere / ca vo’ turnà”. Fu come se la folla volesse ricordare a E. A. Mario che da lui i Napoletani pretendevano le canzoni popolari: “da quando aveva composto la Leggenda del Piave – scrive Paliotti – egli era ridotto a monumento di sé stesso: non faceva che presenziare, su pressanti inviti, a manifestazioni patriottiche; e i soldati, per strada, gli facevano il saluto militare.”. Giovanni Gaeta scelse di chiamarsi E.A. Mario, quando, negli anni della giovinezza, collaborava, firmandosi “Ermes” con il giornale genovese “Il Lavoro”, il cui redattore capo si chiamava Alessandro Sacchetti, e con il giornale letterario “Il ventesimo”, la cui direttrice si firmava “Mario Clary”. Giovanni mise insieme le iniziali di “Ermes” e di “Alessandro” e lo pseudonimo della direttrice e divenne E.A.Mario. Sono colpevole di non aver proposto il nome di E.A. Mario alla commissione della toponomastica, che si riunì molti anni fa: ora tento di porre riparo a quell’errore. Il nome di Ottajano compare nel titolo di “’ A pacchianella d’Uttajano”, scritta da Errico Capurro, cugino di Giovanni Capurro – l’autore di “’O sole mio” – , musicata da Giuseppe Giannelli e pubblicata nel 1904 dalla Casa Editrice Calace. Ho letto da qualche parte che Errico Capurro si ispirò a un fatto di cronaca, a un prete ottajanese che aveva baciato una “figliola” mentre quella gli stava baciando la mano: era scoppiato lo scandalo nel “paese arrevutato”, “Vedite ca è succieso a Uttajano”. La canzone si presta a una interpretazione “macchiettistica”: non a caso divenne famosa grazie a Luisella Viviani, la sorella del grande Raffaele, e non a caso è stata interpretata, su un testo modificato, anche da Valentina Stella. La “figliola”,avendo capito che lo scandalo le impedirà di trovare marito a Ottajano, se ne va a Napoli, ma qui si scontra con gli sprezzanti giudizi che quelli di città esprimono sui “cafoni”: “mammeta m’ha chiammato schiavuttella, neh, / io nun ce songo certo pe’ natura/ si me ce mengo rint’’a funtanella, neh, /cchiù ghianca ce addevento comm’’a vuie”. E’ una risposta da ottavianese, come la battuta finale: “l’uommene ‘o juorno d’ogge mena me/ so’ tutt’ fess’”: oggi gli uomini sono tutti stupidi. Errico Capurro è un mediocre poeta e qua e là prende a calci la lingua napoletana: ma la sua “pacchianella” sa difendere il buon nome della nostra città, meglio del prete peccatore.