Note sull’economia vesuviana a metà dell’Ottocento: la pasta e il vino

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Il commercio del vino, della pasta, di frutta e verdure permisero all’economia vesuviana di resistere con pochi danni al complicato passaggio dal sistema dei Borbone a quello dei Savoia. Le innovazioni introdotte da Giuseppe IV Medici per la produzione del vino negli “stabilimenti” di Terzigno.  Come Luigi Cito conquistò la medaglia di bronzo per la pasta all’ Esposizione Universale di Parigi del 1855-56. Un’immagine di questa Esposizione correda l’articolo.

 

Al di là delle oscillazioni tra politica liberistica e protezionismo, bisogna dire che il vero limite dell’economia borbonica fu l’ostilità verso l’investimento di capitali: dopo il 1821 la dinastia decise di non permettere che si costituisse un ceto borghese solido, ampio, sensibile ai tempi nuovi, e gli economisti graditi agli ultimi re ritenevano che la ricchezza di una nazione si misurasse dal numerario, dalla massa delle monete accumulate. E perciò non ci furono banche, e non ci furono investimenti strutturali. Non c’era frutto o verdura che le terre vesuviane non producessero:  tuttavia la produzione degli ortaggi non bastava alla tavola di un popolo che restava mangiafoglie. E dunque ogni giorno le carrette dei verdummari , cariche di ortaggi,  salivano dalla pianura del Sarno a Boscotrecase, a Terzigno, a San Giuseppe e a Ottajano, e da Pomigliano al mercato di Sant’ Anastasia. Le mele, le pere, le albicocche, le castagne e le noci erano, invece, eccellenti e abbondanti,  tanto da alimentare un traffico intenso con i mercati che sorgevano presso le porte di Napoli. I sommesi Michele d’ Avino, Giovanni Polise e Nicola Napolitano esportavano noci e castagne a Napoli, mentre i grossisti ottajanesi Basilio Di Prisco, Fortunato Ambrosio e Vincenzo D’ Ambrosio compravano grano nel  Tavoliere e vi vendevano mele: nell’attività avevano investito, nel ’48, almeno 2500 ducati ciascuno. Negli anni ’70  Antonio Sdino di Sant’ Anastasia svolgeva un ruolo importante nel mercato dei cereali. Le paste napoletane vennero premiate all’Esposizione di Parigi del 1856 per un moto di orgoglio di Luigi Cito, funzionario della legazione borbonica nella capitale francese. Avendo notato che solo la Sicilia, con i suoi prodotti, era presente in mostra,  il Cito fece esporre la cassetta di pasta che si era portato da Napoli per uso personale, e questa pasta ottenne la medaglia di bronzo. Paste si producevano in tutto il Regno di Napoli: nella provincia della capitale la migliore pasta d’ingegno, cioè lavorata parzialmente a macchina, si produceva a Gragnano, dove nel 1859 funzionavano 81 macchine per manifattura di maccheroni, e 28 per macinare i cereali, e a Torre Annunziata. Tra il 1857 e il 1860 i maccheroni napoletani vennero esportati in Russia, in Brasile, a New  York, mentre il mercato mediterraneo venne a poco a poco occupato dai pastifici di Bari e di Crotone: qui Barracco e Macry avevano aperto, nel 1850, uno stabilimento con macchine a vapore, in cui lavoravano in media 20 persone. Dopo il 1860 Torre Annunziata divenne, per la quantità del prodotto, la capitale della pasta napoletana: nel 1869 le fabbriche erano 80, producevano circa 180000 quintali all’anno di paste e pastine, e incrementavano i capitali cospicui che vi avevano investito i Palumbo, i De Simone, i Cesaro e i Formisano.Il Vesuvio appariva a viaggiatori e a pittori come un gigantesco e ininterrotto vigneto: in ogni stagione dell’anno, il suo colore era quello dei pampini.  A metà del secolo l’Istituto di Incoraggiamento promosse una campagna per l’ immegliamento  dei vini vesuviani, e per razionalizzare le pratiche di coltivazione dei vigneti. In quest’ opera svolse un ruolo importante Giuseppe IV Medici, che possedeva i vigneti più vasti, decine di ettari tra Terzigno e Ottajano, affidati alla cura di tecnici venuti dalla Francia. Nei suoi   stabilimenti  di Terzigno  e di Ottajano il principe introdusse  gli apparati chiusi per la fermentazione, inventati da Madame Gervais, i tinacci con cannello a chiave e  i torchi idraulici. Ma l’ultimo decennio del regno dei Borbone fu disastroso per la viticoltura vesuviana. Nel 1851 i vigneti vennero attaccati da una muffa parassita, che il micologo Berkeley aveva chiamato oidium tuckeri.  I danni furono lievi, rispetto a quelli che il fungo inflisse alle vigne di Agerola, ma nel ’55 ritornarono sul Vesuvio i bachi dell’uva, infierì la crittogama, e il Vesuvio aprì una nuova fase eruttiva che durò cinque anni. I proprietari chiesero in massa la bonifica della fondiaria, e la disperazione era così grande, e così chiari erano gli scricchiolii del trono dei Borbone che il sindaco di Ottajano osò scrivere nella sua relazione che, se lo sgravio non fosse stato concesso, egli non avrebbe potuto evitare inconvenienti nelle vedute di ordine pubblico. Il 6 gennaio 1857, avendo il Comune di San Giovanni a Teduccio aumentato il dazio sulla pasta di 25 grana al cantaio, i fabbricanti interruppero la produzione e congedarono gli operai, i quali andarono a protestare sotto il Municipio e ottennero che il decreto venisse modificato. L’anno dopo, protestarono i maccaronari di Napoli. Tuttavia, la crisi degli anni 1855- 1860, e l’incisiva attività  del Comizio agrario di Castellammare, che nel 1869 incaricò il prof. Giuseppe Frojo di tenere per tutto il territorio vesuviano lezioni popolari circa la manifatturazione del vino, promossero una razionale sistemazione della viticoltura vesuviana. A poco a poco, l’aglianico, la tintora, la coda di volpe e il piè di palumbo sostituirono sul Somma- Vesuvio gli altri vitigni, e molti dei cento tipi classificati nel ’46 da Semmola scomparvero quasi del tutto.