Nel suo libro “Non legare il cuore” Farian Sabahi spiega come accettare il rischio della diversità

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Il Salone del Libro e dell’Editoria di Napoli presenta al Gambrinus l’ultima fatica di Farian Sabahi, docente universitaria, giornalista e scrittrice.

 

Una ragazzina siede in una classe di primo liceo. Siamo ad Alessandria, agli inizi degli anni ottanta e la ragazzina ha scelto il primo banco perché è miope e vuole seguire le lezioni con il massimo dell’attenzione. Il nuovo professore di religione, un prete domenicano che già la conosce, perché guida il suo gruppo scout, appena entra la apostrofa: “Farian è una bastarda”, dice.   Già, proprio “bastarda”, dice. Vorremmo poter affermare che questo accadeva nei lontani anni ottanta, quando in Italia c’era tanta gente bigotta e razzista, che scambiava la religione con il proprio personale credo egoistico, conformista e ignorante, e che ora non accade più. Purtroppo non possiamo dirlo: è ancora così. Perciò questo libro, presentato da Francesco Durante, su iniziativa di Napoli Città Libro, degli editori Guida, Polidoro e Rogiosi, è importante. Nella bellissima e affollata sala del Gambrinus di Napoli, l’autrice ha spiegato l’origine di questo suo ultimo lavoro. Farian, di mamma italiana e padre iraniano, entrambi di famiglia più che benestante, è figlia di un amore ribelle alle convenzioni e ai pregiudizi, e  trasversale a due religioni. Appena nata, Farian viene battezzata ancora in fasce ad opera della nonna materna, che la sottrae con l’inganno ai genitori per far compiere il rito, ma la bambina cresce senza ricevere nessuna educazione confessionale e nessuna pressione di sorta, a cavallo di due mondi che ama allo stesso modo. È per rispondere a una sua esigenza di amore per il figlio Atesh, che Farian ricostruisce, sulla base dei racconti dei genitori, Enrica e Tareh, della nonna Tere, della zia Malieh, la storia della sua famiglia. Vorrebbe che “la dualità che ha vissuto come un conflitto diventasse per lui una ricchezza”.

Il racconto attraversa gli anni del Novecento, vicende buie e violente, dalla Persia dello Scià Reza Pahlavi alle Brigate Rosse italiane, dall’invasione bolscevica dell’Azerbaijan alla rivoluzione khomeinista. Ma alla fine quello che traccia è il percorso personale di Farian, alla ricerca di una spiritualità al di là delle confessioni e delle pratiche religiose. “Cercavo Dio ma non riuscivo a credere, anche perché ho sempre avuto la sensazione che i monoteismi portino in sé una dimensione totalitaria e neghino i diritti delle donne”. Come darle torto? Credo non sia l’unica a trovarsi in questa situazione.

Eppure il suo cammino spirituale continua, si avvicina al sufismo, figlio legittimo della religione islamica, ed è, in definitiva, anche il cammino della ricerca di sé. Ma il percorso di Farian non ha solo un valore individuale. In questi tempi difficili, in cui chi si avvicina alla diversità come a un dono viene accusato praticamente di tradimento, la storia di questa donna e di questa famiglia coraggiosa e indipendente può insegnare qualcosa a tutti.