Come Francastel e Gadamer Daverio era convinto che il mondo dell’arte è il mondo del “gioco” assoluto, della creatività, in cui ogni epoca “mostra” la sua percezione del mondo. Una battaglia di Daverio: l’insegnamento della storia dell’arte deve stare al centro del sistema pedagogico della Scuola. L’ironia dell’ineguagliabile affabulatore sul tema del nudo di donna nella pittura europea. L’immagine che apre l’articolo è un omaggio a un’altra battaglia di Daverio: quella per sottolineare l’importanza del “design” italiano.
Non amava le accademie, i pittori e i critici accademici, i “soloni” che parlano di arte come se cercassero di svelare misteri e di risolvere enigmi. Vittorio Sgarbi ha detto che Philippe Daverio considerava il mondo dell’arte come il mondo dell’innocenza. Ma credo che Daverio sia giunto alla stessa conclusione a cui arrivarono Gadamer, Francastel, Klibansky: l’arte è il mondo del gioco, non del gioco banale e insulso, ma di quello che ha la sostanza della creatività. E in nome di questo principio egli si fece raffigurare con le ali e la coda di un animale fantastico sulla copertina di un numero di “Arte e dossier”, pubblicato nel gennaio del 2010 e dedicato proprio agli “animali fantastici” nella storia dell’arte (vedi immagine in appendice).. L’attenzione per la creatività gli permise di individuare nessi e corrispondenze tra i diversi movimenti del ‘900, di sottolineare l’importanza del “design”, “perché dà vita e carattere agli oggetti”, di condurre una nobile e generosa battaglia per far sì che la storia dell’arte occupasse un posto centrale nei programmi della Scuola italiana e nel sistema educativo.Per la Scuola, sappiamo come sono andate le cose: ma sono certo che lui l’aveva previsto. La sua cultura era smisurata, e geniale era il suo discorrere: chiaro, profondo, sempre sostenuto da riferimenti diretti e concreti ad artisti, e a dettagli delle opere. Ricordo, quasi parola per parola, una sua “lezione” televisiva sulle novità dell’abbigliamento maschile nella borghesia alta della “Belle ‘Epoque”, e la luce nuova che il suo discorso accese sui quadri di Bazille e di De Nittis. Daverio aveva, infine, la capacità sovrana di attirare l’attenzione dell’uditorio affrontando il tema da un punto di vista originale e “inaspettato”: la tecnica dell’antico “asianesimo”. Nell’editoriale (maggio 2011) di “Arte e dossier” – la rivista di cui era il direttore-, affrontando il tema del “nudo” nell’arte, egli scriveva: “…I Tedeschi non hanno mai usato la parola “nudo”, ma quella curiosamente pudica e accademica di “akt”, gli Inglesi non hanno adoperato il loro termine naturale di “naked”, ma si sono serviti del termine francese “nu”, arricchito da quello italiano “nudo” e gli Spagnoli la Maja la vedono “desnuda”, quindi non nuda, ma spogliata. Lo si sapeva già: gli unici che affrontano senza pudore la faccenda sono da sempre quegli svergognati di Italiani e Francesi.”. Ma a questo punto, ecco la riflessione “inattesa”: “il nudo latino non è affatto erotico, è solo fisico: corrisponde a un’esaltazione del benessere materiale che si lega all’idea che la “mens” debba essere sana in un “corpore” altrettanto sano, ma non necessariamente bello. Ecco perché le bagnanti di Renoir possono essere tondeggianti come le pance dei defunti nei monumenti sepolcrali etruschi.”.Sui nudi di donna nella pittura italiana dell’ Ottocento Roberto Longhi aveva scritto, in sostanza, le stesse cose. Come Panofsky, anche Daverio era convinto del fatto che non si comprende la storia dell’arte a partire dalla metà dell’ ‘800 se non si approfondisce lo studio dei modi e delle forme della “ rivoluzione del vedere”: una rivoluzione così “radicale” che la fotografia stessa “si trovò contaminata dalla mutazione dei linguaggi”. Come Panofsky, anche Daverio capì che tra gli antichi e noi la visione del mondo esterno e la percezione di quello interno sono mutate nella sostanza. “Anche a questo serve la storia dell’arte, a cogliere l’essenza del nostro essere attuale, a capire come siamo composti nell’alambicco dei pensieri per permetterci di continuare a inventare”. Queste parole ci spiegano, con sufficiente chiarezza, il “genio” di Daverio, e, nello stesso tempo, l’arretratezza del sistema pedagogico su cui si regge(?) la nostra Scuola.