Il pellegrinaggio dei Napoletani al santuario della “Mamma Schiavona” a Montevergine si divideva, nell’Ottocento, in tre atti: la “juta”, e cioè il viaggio di andata; la visita al Santuario; il ritorno, con la gara di “canto a figliola” e con l’ “arretenata”. Nel 1857 Bidera descrisse la sua “juta”, presentandoci due straordinari personaggi, “Pasqualotto” e “Franciscone”; Fucini salì al Santuario nel 1877, e ne parlò in “Napoli a occhio nudo”. La strana riflessione di Fucini sull’ “egoismo di questa gente”.
I Napoletani salivano in pellegrinaggio al Santuario di Montevergine a febbraio, a maggio e a settembre. Il venerdì prima della “Pasqua rosata” i pellegrini in partenza sparavano fuochi che nel maggio del 1877 fecero “trabalzare nel letto” Renato Fucini. Il quale, quando seppe che era l’annuncio della partenza dei Napoletani per Montevergine, decise di partire anche lui: si alzò e corse alla stazione a prendere il treno delle ore “cinque e un quarto” per Avellino. Raccontò Emanuele Bidera nel 1857 che fino a pochi anni prima nei contratti matrimoniali la promessa sposa poneva come prima “clausola” “d’essere condotta ogni anno a Montevergine” e “il geloso cantiniere, il crudo macellaio e il ricco mugnaio atterriscono le mogli” che vogliono comandare troppo con la minaccia di non condurle da “Mamma Schiavona”, la Madonna Nera venerata a Montevergine. Nel racconto di Bidera trecento carri e carrozze “adorni di mirti e di rose” partono tutti dalla “piazza fuori Porta Capuana”, e il corteo si avvia solo dopo che è arrivato il grande carro che Franciscone, prima “cocchiero ora verdummaro”, costruisce con le sue mani e ne fitta i posti a “sei carlini per persona”: sul suo carro “ stanno trentasei delle più belle figliole del borgo S. Antonio Abate”.Lungo il viaggio i pellegrini pregano e cantano in gloria della “Mamma Schiavona” e gli abitanti di Pomigliano si affacciano dai balconi e scendono in strada per ammirare le carrozze e il gran carro di Franciscone e per ascoltare i saluti scherzosi gridati da “quel vecchio allegro di Pasqualotto, banditore di vino, che da cinquanta anni va a Montevergine”, e non ha mai saltato un anno.La folla saluta i pellegrini anche “ a Cisterna, Marigliano, Ponteccicciano”. Di questa sterminata campagna Fucini scrisse che era “allegra e ferace, coperta da una vegetazione quasi tropicale”: le mancavano solo il mare e il Vesuvio. A Cimitile, “il più romantico paese, pieno di bellissime ville di salici, di alberi piangenti, di croci sotto archi che le difendono” il corteo si ferma, i cocchieri “rinfrescano gli stanchi cavalli”, alcuni pellegrini si riversano nelle osterie e altri stendono i bianchi tovaglioli sull’erba, e forse posano i loro piatti sui resti nascosti delle catacombe in cui sono custodite le ossa dei martiri della fede nolana: la tetra immagine venne dettata a Bidera dal ricordo che Cimitile si chiama così perché era il “cimitero” dei primi cristiani, una vera e propria “città sotterranea che si estende da Nola a Napoli”.“ E intanto che io mi fermo a fantasticare – ammette Bidera – i nostri Monteverginiani mangiano, ridono, scherzano”: si danno forza perché la salita di Monteforte se la fanno a piedi, quasi tutti, mentre le carrozze vuote salgono tirate “dai bovi indigeni con i cavalli legati dietro”. Nella folla che sale verso Monteforte ci sono gioiose manifestazioni di quella “affabilità che distingue dalle altre nazioni la plebe napoletana”.Pasqualotto ha ritrovato “la sua bella, è una vecchia grassa e burliera come lui, alla quale egli terge il sudore e manda gli zeffiretti sul viso con un gran ventaglio di Ischia, e cento strambotti le dice che fanno ridere tutti, rendendo così men aspro il cammino”. Alcuni si fermano, per la notte, a Monteforte, altri scendono ad Avellino, “per trovarsi sabato a Mercogliano e domenica all’alba a Montevergine”. Il sabato, anche Renato Fucini si recò a Mercogliano, tra la gente che si preparava allo spirituale, ultimo viaggio verso Montevergine “tumultuando per le vie e crapulando per le case e per le bettole”, mentre dalle finestre incominciavano ad esibirsi, “con le gambe spenzolate, il viso acceso e il bicchiere in mano”, i “poeti improvvisatori”: ogni comitiva che veniva da Napoli ne portava con sé almeno uno. Il loro compito era quello di cantare le lodi delle donne e dei cavalli e la bellezza della “gita”. I “poeti improvvisatori”, al ritorno, partecipavano alla gara del “canto a figliola” che si teneva a Nola, ed era un momento importante del pellegrinaggio. Questo fragoroso spettacolo era a poco a poco avvolto dalla “puzzolente caligine” che veniva su “dalle padelle strepitanti dei numerosi friggitori occupati per la via”, tra due file ininterrotte di banchi dei venditori “di zoccoli, di immagini di santi, banderuole e rami di abete”: la gente si muoveva nello stretto spazio della strada che restava libero, e Fucini non riusciva a capire perché questa folla non venisse schiacciata dalle carrozze che, guidate da un “ossesso” cocchiere, arrivavano di corsa. “Un eccidio di gambe e di costole pareva imminente”, ma non c’erano incidenti, e i clamori della folla, che risuonavano più intensi, erano solo “degli evviva per i nuovi arrivati.”. E Renato Fucini si spiegava il miracolo con “l’egoismo di questa gente.. Ognuno pensa tanto alla propria salute e tanto poco a quella degli altri, che ne risultano gli identici effetti, come se ognuno, senza badare alla propria, cercasse soltanto la salute altrui”.