UN AVVOCATO TRA I VIGNETI DEL VESUVIO

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Si deve all”avvocato Vincenzo Semmola, di Pomigliano, una preziosa indagine sui vigneti del Vesuvio per mettere ordine nella confusione dei nomi delle uve. Di Carmine CimminoPoichè era venuto il momento di “immegliare i vini vesuviani”, nel 1847 l”avvocato Vincenzo Semmola, pomiglianese, fratello del grande clinico Mariano, esplorò i vigneti del Vesuvio e esaminò i metodi di coltivazione della vite e le tecniche di produzione del vino. Le memorie del suo viaggio confluirono in una lunga e articolata relazione, che egli lesse ai membri del Reale Istituto di Incoraggiamento nella tornata del 3 febbraio 1848.

Per rendere più agevole la sua indagine il Semmola divise il territorio del Vesuvio in tre zone circolari. La prima saliva dal mare per 500 piedi fino a toccare “il camposanto di Resina accosto alla parrocchia di Pugliano, il poggio dei Camaldoli, il casino del Principe di Ottajano, il comune di Somma. La vegetazione vi era rigogliosa, i vini di qualità mediocre e gradatamente di giù in su: si conoscono col nome di mezza lacrima”. Venivano indicati col nome di lagrima fina quelli della fascia di mezzo, più aprica e solatia, che saliva per altri 500 piedi e comprendeva tutto il Poggio dei Camaldoli di Torre: erano vini generosi, nati da “uve più zuccherine”.

“Nella maggiore altezza”, invece, fino al Poggio del Salvatore, “i terreni facendosi sempre più aridi sono poco fruttiferi, le uve gradatamente salendo deteriorano in dolcezza, perchè non giungono a perfetta maturazione a cagione dei venti freddi e delle nebbie”: insomma, ne venivano fuori vini troppo aspri.

Semmola cercò di mettere ordine nella confusione dei nomi, poichè molti contadini non andavano oltre la distinzione delle uve in bianche e nere: erano “universali” solo i nomi delle uve aglianica, catalanesca, olivella, moscadella. L”uva rosa a Napoli era conosciuta come “uva signora o pane”, la sanginella a Somma la chiamavano jelatella, “e viene di spregevole qualità, mentre sulla costa sud e ovest viene pregevolissima”, la castagnara era nota anche come santamaria, l”uva voccuccio come catalanesca nera. Alcune specie prendevano il nome -supponeva il Semmola- da colui che le aveva coltivate per primo: la tarantino, la ferrante, la priore, la donottavio, la capotuosto, la pernice. Don Vincenzo classificò e descrisse con grande cura 112 varietà di uve, illuminando le schede scientifiche delle più note con qualche tocco di vivo colore.

La bacca della piedipalumbo, o palombina è “piuttosto picciola, quanto una palla di fucile di mezza oncia, di color nero, molto sugosa e dolce: dà ottimo vino e amabile”. Il tralcio della coda di cavallo, “vitigno gagliardo e lussureggiante di tralci, è color legno cinericcio e il germoglio novello verde chiaro gradatamente biancheggia con liste color legno”. Il vino della nera ulivella “è gentile a un tempo e spiritoso”, mentre quello della nera lugliese, oltre ad essere spiritoso, è anche “austero a cagione della buccia”. Della catalanesca scrive l”avvocato: “è ottima da tavola. Il vino scarso ma generoso, aromatico e grato: si suole unire alle altre uve bianche e dà nerbo a questo vino. Si coltiva generalmente più per vendere il frutto in piazza che per far vino, superando in dolcezza e sapore quella di qualunque altro luogo”.

Non meritano molte lodi le nere guarnaccia e coda di volpe, mentre dell”uva greca dice il Semmola che è un vitigno gentile, dalla bacca “piccola, rotonda, biondeggiante, dura la buccia, tenace, aspra e poco sugosa. Unita alle altre uve bianche si ha il famoso vino greco: scarseggia in frutto. È molto raro nei terreni alle falde del Vesuvio; più abbondante in quelli alle basi e falde del Somma. Buono, e non di più, è il vino della falanghina, vitigno sufficientemente vigoroso”.
Semmola, dopo aver osservato che le tecniche di vinificazione erano dovunque antiquate e difettose, riconobbe che solo Giuseppe IV Medici, principe di Ottajano, proprietario di sterminati vigneti tra Ottajano e Terzigno, stava ammodernando la sua azienda con l”aiuto di enologi bordolesi che avevano portato sotto il Vesuvio le nuove tecniche e le nuove macchine ideate in Francia da Madame Gervais.

Anche nella torchiatura delle vinacce il Principe di Ottajano aveva introdotto una novità: quella del torchio idraulico, che richiedeva pochissima forza e produceva “un grande effetto”. I coltivatori vesuviani usavano di solito il torchio a vite doppia o unica, o la gabbia circolare di legno ben ferrata. Dalle vinacce alcuni viticultori, e tra questi don Giuseppe de” Medici, distillavano alcool, mentre i coloni usavano riporle in un tino, versarvi sopra dell”acqua, e ottenere l”acquata,”un vinello leggerissimo o acquarello da servire per gli operai del podere”.

L”errore più grave dei coltivatori vesuviani era -secondo Semmola- quello di vendere il vino entro febbraio: dunque, non lo si sottoponeva a travasamento, mentre “i vini lacrima di queste contrade sarebbero vini da beversi nel secondo e terzo anno, perchè allora trovansi aver raggiunto la loro compiuta maturità e se ne ravvisa la squisitezza, potendosi ancora conservare in boccioni di vetro per molti anni, o con oglio sopra e ben turati ed impegolati; e col tempo sempre più si perfezionano, formandosi l”etere enantico che costituisce la nobiltà del vino. Andrebbero dunque sottoposti ad almeno tre travasamenti, a gennaio, ad aprile, a novembre: con queste diligenze possono conservarsi per anni, senza essere chiarificati con colla di pesce o bianco d”uovo o altro”.

Nell” agosto del 1854 Antonio Ranieri, l”ultimo amico di Leopardi, chiese a Giuseppe de” Medici qualche bottiglia di lacrima di Terzigno, che sua sorella gradiva in modo particolare. Il Principe così gli rispose: “Carissimo amico, dopo tre anni di assoluta perdita di ricolto, tutto il deposito che io teneva di vino vecchio e convenientemente lavorato, è venuto a mancarmi, per modo che sono già diversi mesi che tengo chiuso lo spaccio, rimanendomi solo poca quantità, che ho riserbata per uso della mia famiglia. Di questo per ora ve ne invio 12 bottiglie, augurandomi che possa incontrare il gusto di vostra sorella e che, terminato, mandiate a prenderne altro, potendo assicurarvi essere schietto, vecchissimo e depurato a perfezione. L”esservi ricordato di me mi offre il mezzo a rendervi un piccolissimo servigio, pregandovi credermi
Tutto vostro
Ottajano”
(Fonte foto: lucianopignataro.it)

I RITI DEL VINO VESUVIANO