La trilogia della vendetta

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La straordinaria trilogia di Park Chan-wook esalta la vendetta come uno dei meccanismi più naturali grazie ai quali la violenza regola il mondo e permette agli uomini di continuare a vivere.

 L’inizio del millennio ha segnato, nel mondo del cinema, il periodo d’oro delle produzioni sudcoreane. Cercati dai festival, applauditi dai critici e, in qualche caso, con buoni successi di pubblico, una schiera di registi provenienti dal piccolo paese a metà strada tra la Cina e il Giappone ha conquistato il palcoscenico internazionale.

Spesso le mode esplodono per motivi del tutto casuali. La Corea del sud non ha certo iniziato a produrre capolavori dal 2000; come molti sostengono, il vero masterpiece della cinematografia nazionale rimane quel The Housemaid di Kim Ki-young del lontanissimo 1960. Nel mondo del marketing basta poco a creare il fenomeno. E nel 2004 questo poco prende la forma a Cannes del Gran premio speciale della Giuria – presieduta da Tarantino – a Old Boy di Park Chan-wook, accompagnato dalle celebri parole del regista americano che lo definisce “il film che avrei voluto girare”.

L’ammirazione di uno dei registi più idolatrati dalle folle libera il cinema sudcoreano dagli stretti circuiti cinefili e festivalieri, portando appassionati e semplici consumatori a confrontarsi con un tipo di cinema nuovo e spiazzante ma al quale il contenuto altamente emotivo garantiva una certa accessibilità.
Portabandiera di questa nuova stagione resterà proprio la “Trilogia della vendetta” di Park Chan-wook – Sympathy for Mr. Vengeance (2002), Old Boy (2003) e Sympathy for Lady Vengeance (2005) – che, trainata soprattutto dal successo internazionale del secondo film, è diventata rapidamente oggetto di culto.

Non è la semplice vendetta il fulcro dei film, quanto la facilità con la quale il dolore altrui diventa indifferente e la violenza una fonte di piacere e di salvezza. L’abnegazione dei personaggi di Park Chan-wook nel completare i propri disegni è terribile non in quanto sproporzionata al torto subito, ma poiché mostra senza fronzoli in cosa ci trasforma la voglia di punire.
Uno dei meriti principali della trilogia è quello di svincolare la sua verità sulla violenza come portatrice d’ordine dall’eccezionalità di una singola storia. In tutti e tre i film è praticamente impossibile mettere un inizio e una fine alla catena di vendette; la distinzione tra chi oltraggia e chi è stato oltraggiato è appena accennata.

Le vicende sullo schermo sono il segmento di una retta dove tutto si mescola, la prevaricazione è ovunque e chiunque può essere visto nella doppia veste di vittima e carnefice. Dae-su – il protagonista di Old Boy – come prima cosa dopo essere stato imprigionato senza alcun motivo apparente, stila una lista di persone alle quali ha fatto del male. E’ convinto che il motivo della sua sofferenza attuale debba risiedere necessariamente nella sua condotta passata; l’assurdità degli eventi (essere rinchiuso per 15 anni in una stanza) diventa normale perché è normale il percorso colpa-espiazione-vendetta.

Così tutti i personaggi della trilogia conoscono la propria aberrazione. Si abbandonano alla necessità della vendetta con la piena consapevolezza di poter cadere vittime di altri in preda a quello stesso impulso inevitabile. Park Chan-Wook estetizza la violenza sotto la forma di un rito al quale si consacrano prima o poi tutti gli uomini. I modi fantasiosi e truculenti scelti dai protagonisti per vendicarsi non sono furbe concessioni allo shock facile. La sofferenza degli altri è un cerimoniale lungo e complesso perché soltanto attraverso questa trasformazione del castigo in rituale è possibile “normalizzare” la propria mostruosità.

Pur basandosi su una visione così cupa dell’agire umano, lo stile del regista sudcoreano è in grado comunque di mescolare linguaggi molto diversi, alternando grottesco e sentimentalismo con grande scioltezza. L’intera trilogia è piena di geniali trovate tragicomiche, dall’uomo che assiste all’autopsia della figlia tra suoni macabri di organi spostati e ossa segate al gruppo di adolescenti che si masturba scambiando delle urla di dolore per gemiti di piacere.

Dare un respiro epico e appassionato alla faticosa conquista di un istante di serenità, se non di felicità, attraverso l’inesorabile, quasi divino ricorso alla violenza, è il grande merito della trilogia di Park Chan-wook
Regia di Park Chan-wook
Voto
9/10
(Fonte foto: Rete Internet)

CINEMA E PAROLE