La politica che i politici stanno inscenando in questi giorni, a Napoli la chiamano >jacuvella. Di Carmine Cimmino
Inciucio. Parola della lingua napoletana, costruita sull’onomatopea ciu-ciu, immagine fonetica del chiacchiericcio che bolle, a tono basso, e con la mano a schermare la bocca, tra comari e compari: gli ‘nciucieri sono più numerosi e micidiali delle ‘nciucesse. Il termine piacque e piace ai giornalisti politici, e ai politici. Pare loro che quell’inghippo di vocali intorno al suono “c” esprima bene la commedia di scontri urlati e di polemiche fittizie che la politica recita sotto gli occhi del pubblico, per distrarlo da ciò che accade dietro le quinte, dove i marpioni dell’una e dell’altra parte, e dei clan in cui ogni parte è divisa, con calma e in silenzio si spartiscono – è accaduto qualche giorno fa – sedie, poltrone, e letti.
É opinione diffusa che sia stato Mino Fuccillo, il giornalista dell’ Espresso, il primo a usare, in chiave politica, il termine inciucio. Avvenne nel 1995, e quel primo inciucio tra l’on. Berlusconi e l’on. D’ Alema fu il padre di tutti gli inciuci. Anche di quello, quasi fresco di giornata, che secondo gli on. Di Pietro e Maroni ha salvato dagli arresti domiciliari il senatore De Gregorio del PDL. Anche la signora ministro Severino, indossando per un momento i panni del politico, garantisce che sotto la nuova legge anticorruzione non c’è un inciucio per salvare l’on. Berlusconi dal processo Ruby. Nasce dall’inciucio del ’95 anche la sceneggiata sulla legge elettorale. Non c’è un politico che non dica di volerla modificare, questa legge, per renderla più dignitosa, più rispettosa dei valori della democrazia, insomma meno maialesca.
Lo dice l’on. Alfano, lo giura l’on. Bersani, lo garantisce l’on. Casini. Ma ognuno propone un suo modello, anzi qualcuno propone ogni giorno un modello diverso, anzi qualche segretario di partito, l’on. Bersani per esempio, propone un modello che alcuni membri autorevoli (?) del suo partito (?) non condividono. Direbbero a Napoli che è tutta una jacuvella. I signori di cui sopra hanno deciso di non cambiar nulla: per loro, il porcellum con le liste bloccate e con i candidati scelti dai capiclan (i clan della politica, ovviamente) è la migliore delle leggi elettorali possibili. E ciò che è perfetto non si tocca. Ma torniamo alla parola inciucio. I politici se ne sono impadroniti e l’hanno trattata come trattarono il risultato del referendum sui finanziamenti ai partiti, vivi e morti. Ne hanno stravolto il significato.
Francesco D’ Ascoli spiegò, nel 2003, che l’ inciucio non indica, in lingua napoletana, un accordo segreto, per la divisione del bottino, tra politici che al pubblico si presentano come avversari: l’inciucio è una spietata trappola sociale, è la disseminazione di pettegolezzi e di calunnie, orchestrata da più persone, ‘nciucieri e ‘nciucesse, per creare e alimentare discordia e rancori tra le vittime della diffamazione. Le quali sono a loro volta carnefici di altre vittime, trafitte dalle loro maldicenze. É una ruota che non si ferma. Quando ‘nu nciuciere si allontana da un crocchio di ‘nciucieri, sa che non avrà percorso nemmeno dieci metri, e già gli arriverà addosso il soffio del ciu-ciu intonato contro di lui dagli amici.
Sto scrivendo un “divertimento“ : un repertorio di termini e di immagini dedicato agli odori e ai sapori della nostra cucina. Gli spaghetti alla puttanesca li ho definiti un inciucio, e poiché ho usato la parola nel significato che le hanno imposto i giornalisti della politica, e i politici, chiedo perdono ai numi della lingua napoletana. In quel piatto – la versione classica napoletana esclude le acciughe e il peperoncino – si incontrano, e quasi sempre trovano l’accordo, ingredienti che in teoria non dovrebbero sopportarsi. Il cappero, che fu caro a Venere, propizio ai giochi di Venere e antidoto al veleno di vipera, ha un sapore che all’improvviso precipita verso note amare. L’ amaro dei capperi è, direbbe D’ Annunzio, un “agrore salmastro“; è, direbbero i Vesuviani, ammaruosteco: che qualcuno trascrive nell’italiano amarostico: ma non è la stessa cosa.
Perché ammaruosteco fa “vedere“ il sale della concia, la punta di freschezza che viene dalle sfumature del grigio, e, soprattutto, la sensazione di un urto vigoroso, che però subito si esaurisce, senza lasciare né eco né memoria: come il fiore del cappero, che vive dall’alba al tramonto di un solo giorno. Il cappero dà un’emozione fugace e corta: e la lingua napoletana ne esprime con affettuosa chiarezza la ridotta misura con la parola chiappariello. L’amaro dell’oliva nera è un filo sottile che percorre un sapore fatto di lucida mollezza e di fresca acidità: un sapore lungo, vinoso, presuntuoso, che tende a risultare compatto, a ridurre le sfumature, soprattutto se si riesce a disossare le olive senza lacerarne la polpa. Insomma, l’oliva nera ha una delicatezza amaricata, simile a quella che troviamo nel sapore di certi limoni. Pare che sull’aglio sia stato detto tutto: ma del suo odore Nello Oliviero, per esempio, dice solo che è “ caratteristico“.
Gli Accademici della Crusca definirono il sapore “forte e assaettante“, e l’immagine della saetta che trafigge improvvisa pare congrua: c’è nel sapore dell’aglio qualcosa di brusco, una sorpresa che irrita e attira. Il pomodoro con la sua lasca indifferenza esalta il forte carattere degli altri tre ingredienti, e al peso della loro personalità cedono anche gli spaghetti (o le linguine), che nella cottura certi cuochi portano, di una linea minima, al di sotto del livello dell’ “al dente“. Chi mangia spaghetti alla puttanesca deve essere pronto a coglierne la specialità nella dissonanza: dei sapori, e anche dei colori: i riflessi viola delle olive, il nero del pepe, il grigio opaco e salino dei capperi, il rosso del pomodoro. É un piatto moderno: mette a pensare, come lo scontro dei colori e delle masse in un quadro di Rotko.
La puttanesca è simile a una crema di olive nere con aglio, capperi, acciughe e olio d’oliva che i Provenzali chiamano tapenade: e la Provenza è, per la pittura e per la storia del gusto, terra di rivoluzioni epocali. Tra tutte le storie sull’origine del nome puttanesca mi convince quella raccontata da Nello Oliviero. A battezzarla così fu la maitresse di una nota “casa chiusa“ dei quartieri spagnoli, “Il 98“. Alle ragazze erano concesse due ore per la pausa- pranzo, e non c’era un primo piatto che potesse essere preparato più velocemente degli spaghetti con pomodoro, aglio, capperi e olive. Anche i clienti ne mangiavano una forchettata: non si sa mai, vuoi vedere che gli antichi avevano ragione sui poteri afrodisiaci di aglio e chiapparielli?
(Quadro: Mark Rothko, Opera n.21 della serie Multiforms, 1947)