Il Santuario si trova in una terra che per secoli fu un fiorente vivaio di >magare e >fattucchiere. L”ossessione delle fatture. Di Carmine Cimmino
Col decreto n.922, pubblicato il 4 maggio 1811, Gioacchino Murat sancì l’autonomia di Sant’Anastasia da Somma, e elevò la città al rango di capoluogo del circondario che comprendeva anche “Pollena e Trocchia, Massa di Somma e San Sebastiano“. Murat riconobbe, con il provvedimento, la dinamicità dell’economia di Sant’ Anastasia, a cui il Santuario di Madonna dell’ Arco dava un cospicuo contributo. La letteratura su questo culto mariano è uno sterminato apparato di articoli, di saggi e di cronache, in cui i contributi dei secc. XIX e XX poco o nulla aggiungono al sistema di storie, di valori e di simboli codificato tra il ‘600 e la fine del ‘700.
La miracolosa potenza della Vergine dell’Arco è pienamente riconosciuta già da Giulio Cesare Braccini, dottore di leggi e protonotario apostolico, che nella sua cronaca dell’ eruzione del 1631 scrive che i fulmini sprigionati dal “vertice“ dello scatenato vulcano entrano nel santuario, attraverso le alte finestre, girano reverenti intorno alla cappella con l’immagine Santissima, e senza arrecar danno né alle cose né alla folla di fedeli che si ammassa atterrita nel sacro luogo, escono per dove sono entrati. Del resto, se una parte degli Ottajanesi fugge verso Nola, molti altri vanno a Madonna dell’ Arco, a mettersi sotto la protezione della Vergine, i cui poteri essi ritengono assai più forti della potenza diabolica del vulcano.
Tutto è stato detto sui fujenti, sul pellegrinaggio del lunedì dell’Angelo, sui terrori ancestrali che la paura della malattia e della morte prima scatena e poi rimuove attraverso la sofferenza rituale, offerta come pegno alla Madonna. Tutto è stato detto su un culto che tiene (teneva) a freno la violenza della plebe e tenta di inalveare il suo risentimento sociale nei canali istituzionali della carità cristiana. Numerosi sono i carismi e i patronati riconosciuti alla Madonna dell’Arco: ma già nell’Ottocento la Chiesa di Nola e i Domenicani cercano di sminuire l’importanza del ruolo che il culto svolge contro la fattura, contro l’ossessione e contro il tarantismo.
Eppure il Santuario sta in un territorio che per secoli – la fama un po’ ridicola, un po’ sinistra è sopravvissuta fino alla metà del Novecento – fu un fiorente vivaio di magare e fattucchiere, a cui si attribuiva la malefica capacità di estrarre dalle erbe del Vesuvio e delle paludi di Volla i filtri della magia bianca e nera. In questo territorio le eruzioni scompaginavano non solo i sistemi delle cose naturali e delle forme sociali, ma anche l’ordine della logica, poiché nel 1631, nel 1660, nel 1682 e nel 1701 anche uomini di toga e di penna raccontarono che la furia del vulcano era stata annunciata e accompagnata da molti e terribili prodigi, e perfino che si erano scoperchiate alcune tombe e ne erano usciti i morti, resuscitati, ovviamente.
Nel 1890 Marcellin Pellet, console francese a Napoli, scrive che i custodi del Santuario, quando sono interrogati sulla provenienza di strani ex voto, appesi “di fronte alla cappella miracolosa“, “mazzetti di chiodi e di spille arrugginite, vecchie chiavi, ferri di cavallo avvolti in capelli di donna, bustine, ossa, denti“, “si sentono a disagio e pronunziano le parole ossessione, fattura“. Nel “libretto scritto dai Domenicani per celebrare i miracoli della Madonna dell’Arco“ Pellet trova citato un solo caso di esorcismo, che tuttavia “è recente“. Una ragazza indemoniata, Vittoria Colentino, trascinata davanti al quadro miracoloso, comincia “a urlare, a strapparsi i capelli, a graffiarsi il petto e le guance rimbalzando sulle lastre di pietra“.
La ungono con l’olio della lampada che brucia davanti alla Sacra Immagine e la ragazza con uno sforzo disumano “vomita una catena di ferro lunga circa mezzo piede, dalla quale pendeva un sacchetto avvolto in fili e capelli, contenente peli, ossicini, vetro frantumato e altri frammenti.“. Osservando “ i poveri diavoli che si recano alla Madonna dell’ Arco a fare un voto per essere liberati dalla fattura “Pellet commenta, con sprezzante orgoglio di positivista e con spocchia francese, che “nove volte su dieci sono clienti del prof. Charcot che sbagliano porta“. Si affidano alla Madonna, e invece avrebbero bisogno del neurologo.
Una dei procedimenti fondamentali della fattura è l’ inversione della sequenza logica di atti e di gesti: per esempio, la donna che vuole affatturare un uomo gli dà da mangiare del pane che è stato lavorato con la mano sinistra, e senza rispettare la normale procedura di manipolazione e di cottura. E in alcuni casi il fujente portabandiera si avvicina alla cappella della Vergine camminando a ritroso con un movimento a caracollo in cui egli muta continuamente il ritmo dei passi. Infine si gira, “affronta“ l’Immagine Sacra, si affida a Lei. La ossessiva monotonia dei canti dei fujenti, l’esasperazione patetica dei loro gesti, la mimica degli accenni di danza, e l’antica presenza della tammorra nei riti connessi al culto dimostrano che tra i carismi della Madonna dell’Arco vi era anche la terapia del tarantolati.
Lo confermano, con discrezione, alcuni scrittori dell’Ottocento. Il dottor Spizzirri riteneva che il tarantismo, che egli curava con “bagni di vapori di vino trattato con erbe aromatiche“, fosse diffuso “in ogni luogo“. Salvatore De Renzi, che scrisse nel 1832 le sue prime note sul tarantismo, condivideva le idee di Spizzirri ed era persuaso che gli stessi effetti della tarantola venissero prodotti dalla vipera: lo dimostrava, a parer suo, l’efficacia dell’ammoniaca, del vino rosso, del pepe e dell’aglio sia contro i morsi del ragno nero che contro quelli del serpente.
Una tavoletta votiva del sec. XVIII (foto), conservata nel Santuario e pubblicata nel 1979 da Nino D’Antonio, non lascia spazio a dubbi. L’uomo che, nella parte sinistra della piccola tela, danza al suono del colascione è stato morso da una tarantola. Le annodature dei nastri che ornano la sua spada e il suo camiciotto richiamano vagamente proprio la forma di un ragno.
La spossatezza dei pellegrini, i tepori della primavera, la terapia dei tarantolati e i pranzi robusti che concludevano la festa facevano sì che dalle botti delle osterie e delle locande sgorgassero, quel lunedì fatale, torrenti di vino rosso.
Nel lunedì dell’ Angelo del 1870 un occhiuto ispettore di polizia, che da Barra aveva seguito fino a Madonna dell’ Arco una squadra di fujenti la cui devozione non lo convinceva per niente, trovò il tempo per scoprire che Domenico Sorrentino e Saverio Ardolino, di Sant’ Anastasia, incitavano la folla non alla preghiera e alla penitenza, ma al gioco del lotto clandestino, e che gli osti Rosolina Romano, Michele Borrelli, Salvatore Saviano e Andrea Liguori vendevano carne cotta e vino in caraffa senza la necessaria licenza.
(Tavoletta votiva del XVIII sec. "Tarantolato")