LA MITOLOGIA DEL NATALE E LA MANCATA CONSOLAZIONE DEI NAPOLETANI

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Il Natale è una pausa nella linea della vita di ogni giorno. A Napoli, invece, le vicende quotidiane sono state addirittura più forti del mito di Natale. Di Carmine Cimmino

In questo mondo colpevole che solo compra e disprezza,
il più colpevole sono io, inaridito dall’amarezza.
Pier Paolo Pasolini

La mitologia cristiana del Natale, comprendendo anche quella, laica, del capodanno, è stata edificata sulla base di un principio primo, quello della sospensione della normalità quotidiana. Come la Nascita di Cristo iniziò la storia nuova e diede senso alla storia precedente, così il Natale è una pausa nella linea della vita di ogni giorno, è un tempo cavo, una grotta, appunto, in cui ognuno di noi si ritira per ricapitolare il proprio passato, prendere coscienza delle colpe, proporsi di rinascere: ma c’è anche chi si assolve e si augura fermamente che a diventare migliori siano gli altri. Lui già lo è.

Nella pausa si costruiscono modelli di luoghi fantastici: il presepe, l’albero, i giocattoli che possono animarsi da un momento all’altro come nel mondo di Hoffmann, la tavola imbandita. Gli altoparlanti delle chiese e quelli dei grandi magazzini versano nell’aria la melassa delle musiche natalizie. Nessun assessore alla cultura fa mancare ai suoi concittadini un concerto di spirituals e qualche gioco di luci. La neve dovrebbe essere sempre presente. Non c’è in natura un elemento che sia più estraniante: per il colore, per la morbidezza che spegne il rumore, per i silenzi reali e per quelli evocati. In questo tempo cavo si spera, si progetta, ci si organizza. È un rito necessario, come il taglio dei capelli.

Sappiamo che il pomeriggio del 1° gennaio il filo interrotto della nostra storia riprenderà a dipanarsi lungo la solita traiettoria, ma abbiamo il dovere di sperare, per un lungo attimo – sperare, anche se non con il cuore, almeno con la mente: solo la mente è capace di illudersi e di ingannarsi – che lo stato delle cose possa cambiare.
In una operetta morale di Giacomo Leopardi il viandante dice ironicamente al venditore di almanacchi: “Quella vita che è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce: non la vita passata, ma la futura. Con l’anno nuovo il caso comincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”. Il venditore risponde con un laconico speriamo.

Luca Cupiello attraverso il rito dell’allestimento del presepe si estrania dalle vicende in cui è impigliato il resto della famiglia: il presepe è tutta la sua vita, è tutto il suo tempo, in cui egli si immerge per scampare dal tempo altro che scorre intorno a lui. L’ Adorazione dei pastori, che Georges de La Tour dipinse alla metà del sec. XVII, è costruita su due cerchi che hanno come centro il Bambino addormentato in piena luce: circolare è la forma dell’intreccio di vimini su cui Egli giace, in circolo sono disposti gli altri cinque personaggi. Anche la meravigliosa brocca di terracotta tra le mani della domestica ha forma circolare. Tutti i personaggi stanno, nella realtà e nella metafora, tra l’ombra e la luce che si irradia dal Bambino: vedono, ma non capiscono.

La Madonna, luminosa di intima gioia, si affida tutta a suo Figlio: Lei sola intreccia le mani: e il brano di queste mani che proiettano l’ombra sul fantastico rosso vermiglio dell’abito è di rara bellezza. La mano in controluce di Giuseppe sottolinea lo stupore smarrito del Suo volto; il pastore che si tocca il cappello formula un sorriso di circostanza; vagamente materno è lo sguardo della domestica, mentre il pastore che sta accanto alla Madonna pare che abbia concentrato ogni sua energia nella mano stretta intorno al bastone.

Il suo volto, sbozzato con larghe pennellate di colori terrosi, è refrattario alla luce: egli è destinato a rappresentare per sempre quegli uomini che, al di là del credo religioso, non sanno e non vogliono ascoltare la voce che li invita a fermarsi, a riflettere, a entrare in quel cerchio, in quella grotta, in quel tempo cavo in cui è possibile trovare la misura di sé e il senso della propria esistenza.

L’edizione napoletana di La Repubblica apre il numero di ieri, 27 dicembre, col titolo “Risveglio amaro in città. Assediati da povertà e da rifiuti. In arrivo la stangata federalista”. L’autore dell’articolo di fondo scrive: “Dopo il pranzo consolatorio della festività, dunque il risveglio è avvenuto all’insegna del pessimismo più cupo”. Credo che molti napoletani non abbiano avuto nemmeno la consolazione del pranzo consolatorio. Napoli non ha avuto il ristoro della pausa: le vicende quotidiane sono state più forti del mito di Natale. La nostra terra non conosce altro tempo che il suo, e il suo è un tempo incommensurabile.

Mentre il cardinale Crescenzio Sepe invocava per i napoletani una vita nuova e autenticamente bella, a Materdei un disabile di 73 anni, dimesso qualche giorno fa dall’ospedale in quanto malato terminale, un uomo solo, come può essere solo un uomo che il caso ha abbandonato sul ciglio dell’abisso, è morto nell’incendio della sua casa, tra le fiamme e il fumo sprigionati da un corto circuito: è morto a letto: non ha potuto fuggire, forse non ha chiamato aiuto.

Su quest’uomo avrei voluto scrivere l’articolo: avrei incominciato da un pensiero di Graham Greene: siamo tutti rassegnati alla morte; è alla vita che non arriviamo a rassegnarci, o da un aforisma di Vincenzo Cardarelli: La vita io l’ho castigata vivendola. Ho desistito, per il timore che una morte così tragica da risultare, di per sé, un simbolo potesse essere contaminata e banalizzata dalla volgarità della retorica. Certe morti, come certe vite, meritano una meditazione che sia silenziosa.
(Foto: Quadro di G. de La Tour: “Adorazione dei pastori”)

LA STORIA MAGRA